L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

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Il finale triste di Orlando

 di Francesco Lora

Pubblico entusiasta per il capolavoro operistico di Vivaldi al Festival della Valle d’Itria. Ma il testo eseguito è una «revisione drammaturgica» ideata dal regista, dalla quale libretto e partitura originali escono devastati. Fasolis dirige i suoi Barocchisti e una compagnia di canto con Prina, Cirillo, Antenucci e Castellano.

MARTINA FRANCA, 31 luglio 2017 – Manca solo la redazione definitiva dell’apparato critico, poi l’edizione critica dell’Orlando di Antonio Vivaldi, a cura dell’arcispecialista Federico Maria Sardelli, sarà data alle stampe e colmerà una lacuna importante. Questa unica opera vivaldiana oggi stabile nel repertorio, infatti, è tramandata in fonti bisognose di molti restauri o chiarimenti testuali, dai quali derivano errori o approssimazioni sin qui incrostatisi. Ve n’è una dimostrazione persino nel titolo: la versione di Venezia 1727, qui in oggetto, è a tutti nota come Orlando furioso, ma l’aggettivo – posticcio, comodo tuttavia a favorire la renaissance negli scorsi anni ’70 – si addice alla sola, prodromica e assai differente versione di Venezia 1714, oggi paradossalmente detta Orlando per non confonderla con quella che gliel’ha scippato. Mentre il melomane già alza la mano per ricordare che esiste pure un Orlando finto pazzo, Venezia 1714 anch’esso, si va a dire che i materiali dell’edizione critica sono stati usati per la prima volta nel nuovo allestimento dell’Orlando portato in scena il 14 e il 31 luglio al Festival della Valle d’Itria, nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca: direzione di Diego Fasolis, regìa di Fabio Ceresa, scene di Massimo Checchetto e costumi di Giuseppe Palella; allestimento che con gli stessi artisti detti sarà ripreso durante la primavera prossima nel Teatro Malibran per conto della Fenice di Venezia. Ancor prima dello sbarco in laguna, però, la storia s’è munita di un finale triste. Ecco di séguito la ricostruzione delle cause; e se chi scrive è caduto in fantasie inopportune, il contraddittorio degli interpellati sarà benvenuto.

Prima fase. Alla maniera dei registi moderni, i quali credono che ogni lavoro pre-mozartiano abbia status di opera aperta, i quali non si curano della grammatica e del discorso musicale, i quali pretendono che il testo si adegui alle loro aspettative, e non il contrario, Ceresa ha marcato il territorio elencando gli interventi da lui desiderati: amputazione di un quarto abbondante dell’opera, inversione di brani e situazioni, interpolazione di un’aria stilisticamente aliena (pescata dall’Ottone in Villa di ben quattordici anni prima; una cattiva idea ripresa pari pari da un discutibile CD Naïve: sarebbe come ficcare un’aria del Corsaro nella Forza del destino); disintegrazione insomma della struttura rimica, metrica, formale e drammaturgica del libretto; libretto — per inciso — di Grazio Braccioli, cui oggi nessun italianista o teatrologo negherebbe ammirazione per l’abile sintesi scenica del poema ariostesco; né si comprende come tale lista d’interventi – atto di sfiducia verso Braccioli, Vivaldi e l’intendimento del pubblico odierno – potrebbe conciliarsi con le estatiche parole di Ceresa nelle note di regìa: «non esiste un’opera settecentesca che riassume in sé tutta la poetica della meraviglia barocca meglio dell’Orlando furioso». Ma siamo tutti musicologi e un bel tacer mai scritto fu.

Seconda fase. Conosciamo Fasolis per musicista amabilmente spregiudicato nelle proprie proposte interpretative; lo dimostrano anche Le quattro stagioni da lui dirette a Martina Franca, nel concerto del 1o agosto, con legni e ottoni aggiunti alla maniera germanica; ma egli ha tale senso della deontologia professionale da aver saputo dire di no a pretese irricevibili.  Soltanto alla luce di ciò, per esempio, potrebbe essere spiegata la sua improvvisa sparizione (leggi ingiusto allontanamento) dalla locandina di due spettacoli dalle uova d’oro, Ariodante [leggi la recensione] e La donna del lago [leggi la recensione] all’ultimo Festival di Pentecoste di Salisburgo. Si ritiene quindi che abbia risposto picche, puntando a un’esecuzione integrale del capolavoro vivaldiano, tanto più varandosi l’edizione critica. Né va taciuto che i desiderata di Ceresa non potevano che sottintendere una pacifica mediazione col concertatore.

Terza fase: la Fenice di Venezia, roccaforte wagneriana, non teme le quattro-cinque ore di spettacolo del Parsifal, degli scomparti del Ring e del Tannhäuser [leggi la recensione]; ma evidentemente non usa le stesse misure con le opere del genius loci: coproducendo l’Orlando (tre ore di musica) col Valle d’Itria, il teatro dev’essersi preoccupato degli ultimi treni o vaporetti, o dello straordinario da pagare alle maestranze, o di un pubblico creduto più sbadigliante con Vivaldi che con Wagner. Si dice, cioè, che abbia richiesto per tempo di ridurre lo spettacolo alla durata di una Traviata. Tanto è bastato a tagliare la testa al toro: sopra il regista e il concertatore, a decidere sarebbe dunque stato chi ci mette i soldi; e la «revisione drammaturgica» di Ceresa, accettata senza ulteriore discussione anziché essere garbatamente respinta, ha stabilito il riassetto dell’opera sconvolta e menomata. Fasolis deve averne ormai piene le tasche di difendere le ragioni della musica ove gli si tendono imboscate artistiche: avrà lasciato correre. E il Valle d’Itria, festival di riscoperte inaudite e tripudio dell’uditorio che conta, è finito così col promuovere la lettura la più arbitrariamente pasticciata di sempre della più celebre opera vivaldiana.

A dire dello spettacolo in sé dopo l’elefantiaca premessa basta un più svelto giro di parole. L’allestimento di Ceresa, Checchetto e Palella, così scisso dall’analisi testuale, consiste di sole immagini: la luna ove recuperare il senno d’Orlando, il palazzo di Alcina che è una conchiglia d’oro, un favoloso ippogrifo animato da mimi e un ancor più favoloso gigante che si compone dal nulla per lottare col protagonista delirante. L’intenzione è quella di meravigliare: ma quasi nulla di quanto attuato è richiesto dalla drammaturgia originale; ma un tale teatro dell’incantatorio fa ridere chi sia prima passato da Pier Luigi Pizzi; ma dietro alle bellurie si perde l’arte del ragionare in parole e di educare lo spettatore.

Benché a partitura devastata, la direzione di Fasolis è d’alto profilo per brillantezza e incisività, tanto più che per la prima volta l’hanno seguìto a Martina Franca gli eccellenti Barocchisti con i loro strumenti originali. Essendo tuttavia andata perduta una logica drammaturgia musicale, non val più la pena di miniare i magnifici recitativi così sforbiciati, e il florilegio d’arie diviene il paventato concerto senza rintracciabile varietà ed evoluzione drammatica e psicologica.

Nella compagnia di canto, infine, l’essere celebrità o debuttante nulla anticipa circa gli esiti effettivi. Come Orlando e primo uomo, Sonia Prina è la solita animosa e borbottante maestra di ruoli en travesti; ma – è un dolore scriverlo – i registri sono viepiù frantumati e l’ascesa ai primi acuti è viepiù stridente. Come Alcina e prima donna, Lucia Cirillo agisce da tale e ostenta la maggiore allure; ma la parte, di contralto puro, chiede invano agio e velluto dalla sua voce di soprano poco sfogato. La migliore è così Michela Antenucci, fresca di accademia di canto martinese e impegnata in concerti impegnativi sia il giorno precedente sia quello successivo alla replica qui recensita; eppure il suo materiale e il suo porgere sono rimasti limpidi, chiari, attenti alla vocalizzazione e alla parola nonché allo struggimento del canto patetico: tutte cose sollecitate nella parte di Angelica. I meriti sono condivisi con Loriana Castellano, sostanziosa e appassionata Bradamante. Non basta poi essere controtenori all’anagrafe per dare soddisfazione nelle onerose parti di Medoro e Ruggiero: su tale questione Konstantin Derri e Luigi Schifano, rispettivamente, dovrebbero meditare e – fin dove si può ovviare alla natura – studiare, studiare, studiare. Un po’ affaticato Riccardo Novaro, nella tessitura per lui troppo elevata e nella scrittura per lui troppo fiorita di Astolfo. Pubblico entusiasta: ma è stato accontentato con uno spettacolo già nel suo immaginario iconografico anziché essere sorpreso dalla ben altrimenti ricca macchina d’affetti che è l’Orlando – quello vero – pensato da Braccioli e Vivaldi.

 


 

 

 
 
 

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