L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Monteverdi avvelenato

 di Francesco Lora

Nel 450o anniversario della nascita del compositore, il Festival di Musica antica di Innsbruck gli ha dedicato il proprio spettacolo inaugurale. Ma questo Ritorno d’Ulisse in patria con regìa di Tandberg e direzione di De Marchi è una summa d’inadeguatezza drammaturgica e di arbitrii venduti per filologia.

INNSBRUCK, 10 agosto 2017 – Le celebrazioni per il 450o anniversario della nascita stanno facendo proliferare la rappresentazione dei drammi per musica di Claudio Monteverdi (o di chi per/con lui: dopo L’Orfeo, l’attribuzione delle opere superstiti rimane controversa). Ne gode in particolare Il ritorno d’Ulisse in patria; anche il Festival di Musica antica di Innsbruck, dopo alcuni concerti preliminari, ne ha fatto il proprio spettacolo inaugurale: recite il 10, 12 e 14 agosto nel Landestheater. Spettacolo coprodotto e già rodato quasi identico a Oslo, in gennaio-febbraio 2016, nel comparto sia musicale sia teatrale e visivo: regìa di Ole Anders Tandberg, scene di Erlend Birkeland, costumi di Maria Geber e luci di Ellen Ruge. Ma ancora una volta è una lettura fuorviante, come accade a chi voglia partecipare alla divinità di Monteverdi e al mito dell’opera veneziana ignorando il loro basarsi su un possesso sottile e smaliziato della prosodia italiana, su una retorica musicale non decodificabile col solo intuito, sul dispiegamento infine di risorse adeguate allo specifico contesto culturale e storico. Fino alla mistificazione totale del testo.

Fuori d’Italia, se si allestisce un’opera pre-mozartiana, l’obiettivo primario sembra oggi far ridere il pubblico. A ogni costo: cioè anche quando quest’ultimo non comprenda una sola parola, anche quando poesia e musica non ne diano consegna o appiglio, e anche quando si stiano recitando libretti d’alta dottrina etica, degni al contrario d’essere tuttora meditati per l’educazione di sé. A sua volta la regìa di Tandberg non predispone che una serie di gag, spassose ma estranee, ambientate in una contemporaneità desolata. In esse la studiata alternanza di situazioni serie e buffe non è più percepibile, e lo svolgimento dell’azione – non ancora radicalizzato nella tecnica della liaison des scènes – risulta ulteriormente frammentario. Va da sé che il lungo percorso di riconoscimento di Ulisse da parte di Penelope – la sola via per dimostrarne la blindata prudenza e l’incrollabile fedeltà: un modello di comportamento esemplare – ne esce infranto, ridicolizzato, incapace di commuovere.

Ingannevole nelle sue pretese filologiche è anche la lettura musicale, presieduta da Alessandro De Marchi sul podio dell’Academia Montis Regalis. Nell’occasione, l’orchestra dispiegata annovera il catalogo tutto dell’organologia: accanto agli archi della famiglia dei violini si ascoltano, con linee melodiche aggiunte o usurpate, flauti dolci, cornetti, tromboni, dulciana, tiorbe, chitarre, liuto, ceterone, viole da gamba, lirone, arpa, spinetta, clavicembalo, regale e organo. Ciò rinnova l’infondato pregiudizio che l’opera veneziana fosse luogo di fasto sonoro, là dove ancora Alexandre de Rogissart, nel ben più tardo e florido periodo della creazione dell’Agrippina di Händel, ammoniva invece dall’aspettarsi nei teatri lagunari più che il minimo indispensabile in fatto di numero e qualità di strumenti. L’effetto finale, benché senza dubbio accattivante per l’ascoltatore odierno, consiste dunque in un falso storico: cornetti e tromboni, per esempio, mai furono tolti alla propaganda delle chiese più ricche da impresari per loro natura pidocchiosi; così come senza fondamento, invocandosi una prassi improvvisativa mai esistita in queste forme, è il continuo intervenire di strumentini in contrappunto con la linea della voce (e a suo disturbo).

Così ritinteggiata, la partitura è pronta per accogliere una compagnia di canto diligente e impegnata, ma incapace di provvedere l’imprescindibile giardino fonetico, espressivo e timbrico, ossia la scioltezza e la fragranza del porgere in una lingua qui praticata con dilettantismo. La mega-retata prende dentro Kresimir Spicer come Ulisse, Christine Rice come Penelope, Ingebjørg Kosmo come Ericlea, Petter Moen come Eurimaco, Jeffrey Francis come Eumete, Marcell Bakonyi come Antinoo, Hagen Matzeit come Umana Fragilità e Pisandro, Halvor F. Melien come Giove, Nina Bernsteiner come Amore e Giunone, Andrew Harris come Tempo e Nettuno, Ann-Beth Solvang come Fortuna e Minerva. Li affiancano due soli madrelingua, cui spetta il ruolo ingrato di cartina al tornasole circa la giustezza stilistica e la varietà di risorse: Carlo Allemano come Iro – ridicolo sprecare come caratterista chi, per intrinseca nobiltà d’accento, avrebbe meritato la parte protagonistica – e Francesco Castoro come Anfinomo.

Le mende non sono tuttavia finite e interpellano ancora il concertatore. Con arbitrio inammissibile, la parte tenorile di Telemaco è elevata d’ottava e assegnata al reclamizzato ma stentatissimo controtenore David Hansen. Con la consueta superficialità d’approccio all’evidenza della partitura, poi, la parte di Melanto, di fatto contraltile, è assegnata al leggero soprano Vigdis Unsgård. A quest’ultima tocca inoltre intonare, col citato tenore Moen, l’interpolata ciaccona monteverdiana Zefiro torna e di soavi accenti, in barba al fatto che il brano sia ineludibilmente concepito per due voci di uguale registro. Alla Bernsteiner tocca invece intonare anche il celebre Lamento della Ninfa, qui trapiantato con sciocca incoerenza di genere musicale e senza veruna logica drammaturgica. Interpreti con fama di specialisti che allontanano dal pubblico fiducioso e ben disposto la chiara comprensione del genio di Monteverdi: un regalo di compleanno avvelenato.

foto © Innsbrucker Festwochen / Rupert Larl


 

 

 
 
 

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