Il fantasma della Dame aux camélias

 di Andrea R. G. Pedrotti

Un po' usurata, dopo anni di fitte riprese, La traviata firmata da Robert Carsen torna alla Fenice non sostenuta dalla concertazione discutibile di Enrico Calesso. Nel cast si apprezzano soprattutto la maturazione di Alessandro Scotto di Luzio (Alfredo) e la classe di Mihaela Marcu nell'evocare la figura immortale della protagonista. 

VENEZIA, 22 settembre 2017 -  Torna, nel teatro che ne vide la prima esecuzione assoluta, La traviata di Giuseppe Verdi nella produzione collaudata, e sovente riproposta, a firma di Robert Carsen. Nell’idea registica permangono alcuni riferimenti letterari, ma la psicologia dei personaggi viene mutata in modo solo apparentemente minuto.

Il primo atto vede un grande letto al centro della scena e l’arredamento pare quello di una tetra suite di qualche residence, con i clienti di Violetta intenti a consegnarle mazzi di banconote come di incessanti marchette. Nella concezione di Carsen sparisce Marie Duplessis e ritroviamo una prostituta costosa, da feste private, ma una prostituta che perde il fascino e l’eleganza della fanciulla della Normandia. È probabile che Carsen volesse rendere, con l’impianto scenico, l’oppressione del mondo borghese e l’aridità dei sentimenti, ma la Duplessis è passata alla storia per il suo fascino, per la sua intelligenza prodigiosa, nonché, e soprattutto, per il suo cuore. Tutt’intorno una schiera di debosciati, con Alfredo ridotto a voyeur dai tratti maniacali che mostra a Violetta tutte le fotografie che le aveva scattato di nascosto; così non troviamo più il trasporto amoroso del giovane parigino, che, discreto, si recava in rue d’Antin solo per avere notizie dell’inferma Marguerite Gautier. Anche l’abito di Violetta (sottoveste e autoreggenti a vista) sottolinea solo il carattere brutale, a tratti decadente, dell’orgia, ma distoglie l’attenzione dalle intense sfaccettature dell’animo della protagonista.

Più interessante il secondo atto durante il quale viene riprodotta sul fondale la campagna dove Violetta e Alfredo (che seguita a fotografare l’amata senza sosta) si erano rifugiati; qui l’unico elemento dinamico è la pioggia di banconote dall’alto della scena. Più nel libro che nell’opera, il tema del denaro e del mercimonio del corpo femminile è citato quasi ossessivamente e quest’immagine visiva, al contrario delle precedenti, risulta efficace, poiché mescola l’apparente tranquillità bucolica dei due amanti, con il tormento della rimembranza dolorosa d’un doloroso passato, che presto sarà anche futuro.

Anche il quadro successivo desta alcune perplessità: i protagonisti si trovano in una sorta di club privé, che, per quanto possa avere degli avventori selezionati, ha poco a che vedere con una festa privata, come dovrebbe essere quella a casa di Flora: quest’idea abbassa molto il livello della borghesia, che in La traviata è comunque la più alta società parigina di cui Violetta\Marguerite\Alphonsine brama far parte. Violetta è certamente una prostituta, in quanto chiede denaro in cambio di prestazioni sessuali, ma, in questa visione, perde le caratteristiche della cortigiana o dell’etèra dell’ellenica memoria: donne di cultura ampiamente superiore alla media, eleganti e raffinate.

Il terzo atto ci riporta nella camera 1206 del residence dove Violetta aveva sua dimora: la stanza è spogliata dagli arredi ed ella è costretta a dormire sul pavimento. La regia, nata con Patrizia Ciofi, prevede una Violetta che soccombe con un trapasso brutale, nevrastenico, più simile a un attacco di epilessia; non c’è il languore, del sottoscala di Montmatre, non troviamo le struggenti pagine del diario epistolare consegnato da Julie Duprat ad Armand Duval, non c’è quell’insostenibile nodo alla gola, non c’è Alphonsine, non c’è La dame aux camèlias.

Non entusiasma, parimenti, la direzione di Enrico Calesso, poco curata e caratterizzata da dinamiche scolastiche, prive di senso drammaturgico e significativa linea musicale: la concertazione insiste su un’alternanza di forte e mezzo forte, rendendosi responsabile, inoltre, di un notevole squilibrio fra buca e palcoscenico. Sovente gli attacchi degli interpreti non sono precisi e la scena pare in lotta l'intenzione del direttore. Un esempio per tutti è “Parigi, oh cara”, quando le indicazioni di Calesso appaiono generiche e rivolte esclusivamente all’orchestra, tanto che i due interpreti (per la prima volta assieme sul palco) non trovano l’intesa. Anche nel prosieguo dello stesso duetto, mentre i cantanti cercavano una linea più appropriata, il direttore insisteva nell'accompagnamento su un’accentazione eccessivamente brutale e tempi in totale disaccordo drammatico con la situazione.

Decisamente meglio la compagnia di canto. Nel ruolo di Alfredo, abbiamo avuto modo di ascoltare Alessandro Scotto di Luzio. Il tenore dimostra notevoli miglioramenti tecnici rispetto al Rigoletto del 2016 (leggi la recensione) o alla Lucia di Lammermoor del 2014 (leggi la recensione), entrambi ascoltati al Filarmonico di Verona. L’emissione è gestita con cura, specialmente nel registro grave e in quello centrale e lo squillo appare decisamente più efficace rispetto al passato. Una pecca, probabilmente causata da regia e direzione, è una diffusa piattezza nel fraseggio e una scarsa partecipazione all’azione scenica.

Giuseppe Altomare (Giorgio Germont) appare interprete alienato dalla drammaturgia complessiva; pressoché immobile sul palcoscenico, canta correttamente la parte dal punto di vista musicale, sebbene nella sua esecuzione di “Di Provenza il mar, il suol”, fraseggi in maniera piuttosto scolastica in totale contrasto con la dozzinale linea orchestrale, che tendeva a soverchiarlo, perlomeno a un ascolto dal fondo della platea.

La parte della protagonista era a Mihaela Marcu: il soprano romeno cerca una via interpretativa, nel contesto di una produzione di repertorio, che riporta sul palcoscenico del Gran Teatro la Fenice gli unici ricordi di Alphonsine Plessis. La sua è una lettura molto diversa da quella suggerita da questa messa in scena. Già elegantissima nei modi, così come negli atteggiamenti, appare come l’etèra di Dumas. Indirizza ad Alfredo, nel duetto del primo atto, i famosi sourires demi-moqueurs (sorrisi quasi di scherno), tratteggiando una Violetta elegante e di gran classe, in antitesi con la discutibile idea registica di abbassarne tanto il livello umano e culturale. Suoi gli unici lampi di classe della serata, specialmente nel fraseggio del duetto con Germont: “così alla misera ch’è un dì caduta,/ di più risorgere – speranza è muta…! / Se pur benefico – le indulga Iddio / l’uomo implacabile – per lei sarà…”. Ben eseguito il Mib del finale I e partecipe il suo “Addio del passato”; offre tutti i lampi di classe possibili nei momenti di canto più scoperto. La Marcu è l’unico elemento del cast a seguire il direttore che, con la sua concertazione priva di fluidità e dai tempi ampiamente perfettibili, le impedisce di sfruttare il suo fraseggio e la tenuta dei fiati, mentre la costringe a impegnarsi in un’interpretazione più drammatica, meno consona alle sue caratteristiche di soprano lirico d’agilità, adatto a un repertorio belliniano, donizettiano, francese nonché al Verdi più belcantista.

Esiste una prefazione di Alexandre Dumas fils in cui l’autore descrive alla perfezione il personaggio di Violetta esprimendosi così riguardo Alphonsine Plessis: “Fu una delle ultime e poche cortigiane che ebbero cuore. […] Non mancava né di intelligenza né di generosità […] Possedeva un’istintiva eleganza, si vestiva con gusto, camminava con grazia, quasi con nobiltà. […] Qualche volta la si scambiava per una signora del gran mondo. Oggi ci si sbaglierebbe continuamente.” Questo frammento della descrizione della personalità della Dame aux camélias, la ragazza di fattoria divenuta la più desiderata cortigiana parigina e che mantiene il suo carisma intatto a centosessantanni dalla tragica morte. Questi tratti della personalità di Violetta sono, e devono essere, imprescindibili in La traviata. La Marcu li conosce e li segue, la regia no.

Lo spettacolo, ed emerge chiaramente in quest'occasione, dovrebbe essere costruito, infatti, sulla personalità dei cantanti, con prove e adattamenti. Inserita la produzione nel repertorio le caratteristiche dei personaggi sono annullate, o risultano disomogenee, a tutto svantaggio della teatralità e della drammaturgia.

Completavano il cast Elisabetta Martorana (Flora Bervoix), Sabrina Vianello (Annina), Emanuele Giannino (Gastone), William Corrò (il Barone Douphol), Francesco Milanese (il dottor Grenvil), Matteo Ferrara (il marchese d’Obigny), Bo Schunnesson (Giuseppe), Carlo Agostini (un domestico di Flora) e Antonio Casagrande (un Commissionario).

Buona la prova del coro diretto da Claudio Marino Moretti.

La parte visiva era firmata da Robert Carsen (regia), Patrick Kinmonth (scene e costumi), Philippe Giradeau (coreografia), Robert Carsen e Peter Van Praet (disegno luci). Assistente alla regia Christophe Gayral.

Tutti gli interpreti sono stati salutati con calore, ma senza particolari entusiasmi, da un pubblico in gran parte composto da neofiti e turisti (soprattutto francesi) giunti a Venezia per i numerosi eventi culturali del periodo.