L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Leo nucci, annalisa stroppa, stefano la colla, mikhail petrenko

Sì bella e perduta

 di Emanuele Dominioni

Nabucco ritorna alla Scala nel discutibile allestimento firmato da Daniele Abbado che debuttò nella stagione 2012/2013. Una serata decisamente sottotono su più fronti, non aiutata dall'imprecisa direzione di Nello Santi e da un cast che offre luci e ombre. 

MILANO, 27 ottobre 2917 - Nabucco come luogo della memoria. Da questo semplice assunto prende vita l'impostazione registica di Daniele Abbado che rilegge il capolavoro verdiano in una chiave contemporaneo/novecentesca. La vicenda biblica perde in questa visione i suoi connotati più naturalistici e storici, (e in un certo senso anche quelli religiosi), per diventare contemplazione e commento alle vicende di un popolo. Il tema dell'oppressione degli Ebrei ritorna costantemente nei secoli e Abbado, rileggendolo in chiave atemporale, lo priva di ogni riferimento preciso, traducendolo a elemento archetipico della civiltà ebraica con qualche sporadico accenno alla tragedia della Shoah. La memoria del popolo quindi è ciò che partorisce la vicenda di Nabucco, ed è sempre il popolo a essere al centro di tutta l'azione allorquando ci accorgiamo che il palcoscenico ne è costantemente occupato.

Un'interessante lettura quest'ultima, che nella sua trasposizione teatrale pecca però di staticità scenica e incomprensibilità narrativa, figlie di una dimensione per lo più cervellotica e in ultima analisi del tutto fuori luogo in rapporto alla drammaturgia verdiana, soprattutto in questa fase.

A livello scenografico ci troviamo ora in un cimitero ora in un deserto, luoghi anche questi della memoria, che,sebbene offrano una prospettiva suggestiva mediante alcune proiezioni sullo sfondo, rimangono del tutto sganciate dalla vicenda e dai protagonisti, i quali si muovono in spazi asettici, reinterpretando se stessi in un contesto poco credibile ai fini della fruibilità da parte del pubblico. Così, non offrono motivo di particolare interesse né le luci firmate da Alessandro Carletti, né tanto meno alcune scelte musicali invero poco azzeccate.

A Nello Santi vengono affidate, da qualche tempo a questa parte, le riprese scaligere di grandi titoli verdiani (ricordiamo la recente Traviata, rimanendo in attesa di Aida per il 2018). La sua lettura, neanche a dirlo, offre i consueti tempi dilatati, e ciò non sarebbe di per sé discutibile se a una tale scelta stilistica non si accompagnassero vistosi errori in orchestra, attacchi che stentano ad arrivare, e giungono comunque mai precisi (anche a livello corale), e una generale pesantezza nella concertazione che non aiuta nessuno, né palcoscenico né tanto meno il pubblico. Dispiace che ci vada di mezzo Verdi stesso, di cui si sacrificano vitalità e verità drammatica, ma anche lo stesso spettacolo, che, nella sua rilettura “contemporanea” e con i limiti sopra espressi, avrebbe beneficiato di una lettura musicale ben più energica, o quantomeno precisa.

A fronte di tutto questo prendiamo atto di un Leo Nucci che offre la consueta prova di classe, omaggiando e incarnando la parola scenica come quasi nessun altro cantante al momento. Riesce a imprimere forza a un personaggio nonostante le cedevolezze di emissione e una linea di canto che, ricorrendo sovente al parlato e altri espedienti, sarebbe forse da preservare nella memoria dei fasti passati. Anche alcune puntature, fino a ieri sicure e sfoggiate con impavida baldanza, ora sono offuscate da un'intonazione precaria e quando centrate rimangono squarci di luce nell'evidente fatica di un leone stanco.

Di Martina Serafin lodiamo la qualità timbrica e una grande cura del fraseggio, che le hanno permesso di disegnare un'Abigaille ora guerriera ora donna tradita e figlia rinnegata, grazie a un'arte scenica davvero di primo livello. Ha, però, potuto solo in parte di ovviare a una linea di canto completamente fuori controllo per quanto riguarda i passaggi al registro acuto, in cui a certi suoni oscillanti si accompagnava una proterva tendenza a un forte perenne, anche laddove ( "Anch'io dischiuso un giorno") si esigerebbe esattamente il contrario.

Il resto del cast in particolar modo ha sofferto i tempi dilatati imposti dalla direzione. In questo senso discreta è stata la prova di Mikhail Petrenko che, nonostante un'emissione non proprio a fuoco, è riuscito a imprimere nobiltà ai cantabili e carattere al suo Zaccaria. Lo stesso dicasi per l'Ismaele di Stefano La Colla, che dà sfoggio di uno strumento, invece, di ottima qualità, squillante e decisamente adatto alla parte. Annalisa Stroppa, già apprezzata Suzuki nella Butterfly dell'inaugurazione, ritorna qui con la consueta perizia nel fraseggio; nonostante qualche difficoltà in zona acuta nel finale dell'aria e in "Immeso Jeovah", si fa notare anche per una presenza scenica partecipe. Buona la prova di Oreste Cosimo come Abdallo e Ewa Tracz come Anna; meno sul piano vocale quella di Giovanni Furlanetto (Gran Sacerdote).

Il coro del Teatro alla Scala si conferma di prima qualità per quanto concerne qualità timbrica e compattezza sonora. Dispiace vederlo e ascoltarlo in questa occasione lasciato al proprio destino da una concertazione poco attenta e da una regia totalmente inerte.

foto Brescia Amisano


 

 

 
 
 

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