L’Ape musicale

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Nel blu, sereno-variabile

 di Giuseppe Guggino

La ripresa a distanza di diciassette anni dell’Italiana in Algeri del tandem Luzzati-Calì, con due diverse compagnie di canto, fa registrare sullo sfondo dipinto di blu serate oscillanti tra il variabile nuvoloso alla prima e il sereno stabile del secondo cast, con cui anche le pregevoli intenzioni interpretative di Gabriele Ferro sembrano potersi realizzare con minori condizionamenti e maggiore quadratura di insieme.

Il video integrale della prima

Palermo, 23-24 novembre 2017 - Mantiene inalterata la freschezza a distanza di ben diciassette anni il semplice impianto scenico fisso di Emanuele Luzzati per L’Italiana in Algeri, con un fondale celeste, un volume tronco-prismatico coperto di variopinti tappeti di thobe e con qualche parete jaali scorrevole; e lo stesso potrebbe dirsi dell’ampio ventaglio cromatico sotteso dai bellissimi costumi di Santuzza Calì. Insomma, date le premesse per una serata all’insegna della buona tradizione, è davvero un peccato che queste recite siano scivolate verso la (un po’ meno buona) tradizione di assimilare la drammaturgia buffa rossiniana a quella dell’avanspettacolo; ma purtroppo la mano di Maurizio Scaparro non pare essere stata argine fermo alle puntuali sottolineature caricaturali di un libretto non paragonabile a quello di Ferretti per La cenerentola, ma certamente molto meno impertinente di quello dell’Equivoco stravagante (e non si osa pensare cosa sarebbe potuto accadere se quella fosse stata l’opera). Occorre però rilevare una sostanziale migliore riuscita teatrale del secondo cast che, in ossequio a un vezzo in voga in quel di Palermo, sarà bene chiamare “altro cast”, anche per il risultato strettamente musicale. Già, perché, eccettuata la pregevolezza del timbro di Marianna Pizzolato, Isabella di vaglia, capace di un "Per lui che adoro" di grande malìa, il successo complessivo della replica è parso di ben altro segno rispetto a quello della prima. Suo “doppio”, pari per valore e forse con maggior freschezza, è una Teresa Iervolino in netta crescita nella gestione dell’intonazione rispetto all’Angelina nello stesso teatro dell’anno scorso, forte di un temperamento talvolta debordante che però risulta particolarmente appropriato al ruolo.

Nel ruolo di Mustafà si è ritrovato Simone Alaimo a festeggiare l’ottocentododicesima recita del ruolo; ma festeggiare le cifre tonde è sempre preferibile. Nell’altro cast è stato un balsamo apprezzare il bronzo dei mezzi pregevolissimi di Luca Tittoto che, scontata una certa comprensibile cautela in un’accuratissima gestione del canto d’agilità, disegna un Mustafà autorevole, sonoro, sempre cantato senza forzature e con buon gusto teatrale e nelle variazioni, sul quale – in più di un momento della serata – non è parso esagerato vedersi allungare l’ombra di Ramey.

Pietro Adaini stupisce per dei mezzi naturali totalmente fuori dall’ordinario per bellezza e ampiezza, tuttavia è il loro uso, in perenne difetto di intonazione e spesso tendente alla strozzatura a fargli preferire, e non di poco, l’altro Lindoro di Levy Sekgapane, tenore di estrazione mozartiana ma tecnicamente meglio assestato e stilisticamente più pertinente.

Per imperscrutabili stravaganze nell’assemblaggio dei cast si è poi ascoltato in entrambe le sere il Taddeo di Vincenzo Taormina, fondato sul bel timbro di baritono e sul meno affidabile gusto nel proprio personale approccio al genere buffo.

Completava la distribuzione l’Haly di Giovanni Romeo, un poco troppo morchioso e teatralmente incline al clericale, Isabel De Paoli indugiante in qualche eccesso di compiacimento nei centri di Zulma e l’Elvira di Maria Francesca Mazzara, penetrante (specie al finale primo) come libretto vuole: altrimenti il “cara m’hai rotto il timpano” di Mustafà parrebbe ingiustificato.

Il Coro maschile di Piero Monti ha scontato una certa inadeguatezza ai tempi coerenti con la visione che Gabriele Ferro ha del rossini buffo, come altra faccia del rossini serio, alla quale destinare dignità non minore. Una prospettiva, va detto, ormai quasi minoritaria, ma non priva di fascino e fondatezza, se si osservano le strutture e la cura nell’uso degli strumenti obbligati in tutta la partitura; e vale la pena lodare la realizzazione del corno e dell’oboe rispettivamente nelle due arie di Lindoro, del flauto nella Cavatina d’Isabella, ma più in generale la trasparenza dei legni tutti e l’articolazione del suono precisa, asciutta ma senza secchezze, degli archi. A differenza delle concessioni – troppe – al gusto musicale non infallibile dei solisti, la castigata realizzazione del basso continuo di Giuseppe Cinà al fortepiano è pertanto parsa ben integrata in una concertazione capace di alimentare grandi aspettative per il Guillaume Tell di inaugurazione della prossima stagione, ormai alle porte.

foto Rosellina Garbo


 

 

 
 
 

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