Kunde al restauro del Prophète

 di Francesco Lora

La Deutsche Oper di Berlino prosegue nella metodica restituzione delle opere francesi di Meyerbeer in edizione critica: al turno del Prophète, eccellente è la prova di Gregory Kunde, Clémentine Margaine ed Elena Tsallagova nelle parti principali, così come encomiabile è la cura nella direzione di Enrique Mazzola.

BERLINO, 30 novembre 2017 – Giacomo Meyerbeer fu con ogni probabilità il compositore più influente nel cuore dell’Ottocento musicale, operistico in particolare. Amico ed emulo di Gioachino Rossini, si trasferì come lui a Parigi e da lì, senza mai abbandonare il teatro, costituì un ecumenico punto di riferimento stilistico per autori pur tra loro tanto differenti come Hector Berlioz, Giuseppe Verdi e Richard Wagner. Le sue opere giovanili italiane furono tra le poche a farsi largo con originalità poetica innanzi allo strapotere del Cigno di Pesaro, mentre le sue mature opere francesi cristallizzarono il genere del grand opéra e rimasero nel repertorio internazionale fino a Novecento inoltrato. Oggi è raro assistere tanto alle une quanto alle altre: senza un’istituzione che dedichi loro sforzi appositi nell’àmbito di un progetto scientifico, la loro difficoltà esecutiva rimane enorme – furono d’altra parte concepite per i primi teatri del mondo – e anzi è raddoppiata da giuste pretese filologiche. Provvidenziale è dunque l’iniziativa della Deutsche Oper di Berlino: da qualche stagione essa sta metodicamente restituendo alle scene i capolavori francesi di Meyerbeer, suo concittadino illustre, e lo sta facendo con edizioni critiche che ne restaurano l’assetto altrimenti guastato dalla tradizione. Il fuoco d’artificio dell’anno scorso rimarrà indimenticabile: Les Huguenots con la direzione di Michele Mariotti e il canto di Patrizia Ciofi e Juan Diego Flórez [leggi la recensione]. Ma a tenergli testa è in corso il botto di quest’anno: una nuova produzione dell’altrettanto monumentale Prophète, opera venerata da Verdi in persona, con recite dal 26 novembre al 7 gennaio e una locandina d’alto rango.

Si sgombri il campo da ciò che non è andato a segno, ossia l’allestimento con regìa e coreografia di Olivier Py e scene e costumi di Pierre-André Weitz. Essi scardinano l’originale collocazione spazio-temporale del lavoro: la trasportano dall’Olanda e dalla Germania del Cinquecento, con i connessi strascichi feudali e guerre di religione, alla squallida banlieue di un’odierna metropoli francese, ove la criminalità organizzata sospende il diritto dello Stato. Ciò fatto, non sanno però costituire intorno all’idea di partenza una drammaturgia alternativa che ponga in risalto i valori teatrali del testo. V’è la routine del solito stupro interpolato alla prima occasione, per non deludere le aspettative di una platea allevata a Regietheater, e v’è pure un pastore tedesco a far colore domestico dalla sua cuccia. Ma la realizzazione coreografica del balletto d’ordinanza nell’atto III, con mimi limitati agli stessi movimenti per un quarto d’ora, in barba a quattro ben differenziati metri e passi di danza, toglie il senso espressivo-narrativo ed è mero appuntamento col ridicolo.

Personaggi e atmosfere, a loro volta, sono definiti autonomamente dalla bontà di cantanti e bacchetta. Carismatico protagonista è Gregory Kunde come Jean de Leyde. La parte s’attaglia in modo ideale alla sua presente organizzazione canora: gli offre estesi recitativi da scolpire con enfasi ispirata e insieme cantabili da inarcare con astratta eleganza, nonché una tessitura che fa convivere lo squillo intatto del registro acuto e il rimbombo di un nuovo centro brunito. Da ammirare è anche Clémentine Margaine nell’eclettica, estesa, diabolica scrittura della parte di Fidès, cucita sulle doti mitiche di Pauline Viardot e convertibile in cinque Azucene verdiane. Il mezzosoprano francese vi palesa più reverenza e prudenza che piglio demoniaco; talvolta va a rischio d’intonazione nello scarto di registri dall’estremo affondo all’opposta impennata; rende nondimeno questa temibile orografia fissata in partitura, nonché i tratti psicologici del dolente personaggio materno. Ben assortita con detta primadonna è a sua volta l’eccellente Elena Tsallagova, Berthe dotata di generosa risonanza, sana brillantezza, virtuosistico agio nella coloratura, semplice ma risoluto pathos nel porgere. Nobilmente funzionale è tutto il lungo séguito della compagnia di canto, anche se sarebbero benvenuti mezzi più importanti di quelli di Derek Welton nella parte di Zacharie, a suo tempo creata da un basso della portata di Nicolas-Prosper Levasseur. La direzione di Enrique Mazzola, infine, coordina un’opera dal lento incedere e maestranze a pieno organico: non travolge né commuove nel ritmo teatrale, ma con cura encomiabile sostiene le ragioni del canto e pone in luce i preziosi squarci inediti della partitura restaurata.

foto Bettina Stöss