herbert schuch, karl-heinz steffens

Sublimi feriam sidera vertice

 di Alberto Ponti

Una Settima di Bruckner annulla la distanza tra il cielo e la terra

TORINO, 20 gennaio 2017 - È risaputo che la storia (anche quella della musica) non si fa con le ipotesi e le obiezioni dei ‘se’ e dei ‘ma’, pur rimanendo l’esercizio assai affascinante.

Ad ascoltare la Sinfonia n. 7 in mi maggiore (1883) di Anton Bruckner (1824-1896) viene infatti da chiedersi quale sarebbe stato l’impatto dell’opera se l’autore, allo stesso modo dello Schubert dell’Incompiuta, si fosse interrotto dopo i primi due movimenti. Avremmo probabilmente avuto un capolavoro in nulla inferiore alla sinfonia completa, posto che l’Allegro moderato e l’Adagio si pongono ai vertici non solo della produzione bruckneriana ma dell’intero sinfonismo ottocentesco.

Sul podio dell’OSN Rai, giovedì 19 e venerdì 20 gennaio, Karl-Heinz Steffens, già primo clarinetto dei Berliner Philarmoniker e da una decina d’anni direttore a tempo pieno, si distingue per una lettura attenta, serrata e convincente dell’opera. Il maestro tedesco non esaspera a livello drammatico i contrasti tra i diversi piani sonori, asseconda lo scorrere chiaro e tranquillo della scrittura contrappuntistica nel tessuto strumentale, illuminando ogni passaggio, dai tremoli impercettibili degli archi agli accordi più accentuati degli ottoni al gran completo.

Le mani di Steffens non varcano mai la soglia del gesto parco di chi, abituato a sedere in orchestra, riesce a fissare il proprio pensiero con un semplice sguardo, una misurata mimica facciale. Figlio della grande tradizione europea, egli appare a mezza via fra l’autorità creativa di un Richard Strauss e l’ascetico rigore di un Evgenij Mravinskij, sintesi tanto improbabile sulla carta quanto efficace nella realtà di un compositore come Bruckner.

La splendida melodia di apertura del primo movimento si espande con un fremito dal mi dei violoncelli e dà l’avvio a una continua, trascendente ascesa verso l’apoteosi della coda. Di una compassata ma inconsolabile mestizia (ispirata dalla notizia della scomparsa dell’ammirato Wagner) è invece intessuto il successivo, colossale Adagio, modellato sul tempo lento della Nona beethoveniana, che trascolora nella luminosa purezza del secondo tema, già al di là di ogni conflitto terreno. L’aderenza dell’esecuzione al dettato compositivo è totale: nessuna concessione alla sonorità fine a se stessa, e la tensione emotiva rimane alta davanti a una delle più straordinarie apparizioni del divino in musica. Con lo Scherzo ed il Finale si ritorna con i piedi sulla terra, all’insegna di un rustico ottimismo in cui, nonostante qualche ruvidezza nelle entrate, abbiamo apprezzato la raffinatezza nell’impasto timbrico dei fiati (flauti, clarinetti, trombe e tube wagneriane in primis), a lungo applauditi, insieme alla loro guida e al resto della compagine torinese, da una sala visibilmente soddisfatta e concentrata per tutta l’esecuzione della grandiosa pagina.

Il programma si era aperto, nella prima parte, con un altro caposaldo del repertorio quale il Concerto n. 3 in do minore op. 37 per pianoforte e orchestra (1798-1803) di Ludwig van Beethoven (1770-1827), con la partecipazione del solista Herbert Schuch.

Nato in Romania nel 1979 ma presto trasferitosi in Germania, il pianista si è messo in luce vincendo tra il 2004 e il 2005 tre importanti concorsi internazionali tra cui proprio il ‘Beethoven’ di Vienna. Purtroppo, ad oggi, non sembra andato molto oltre. L’esecuzione del concerto è corretta, il tocco si presenta limpido e cristallino, adatto forse ad impressionare una platea di giurati, ma il Largo centrale manca di personalità e i due movimenti estremi assumono un andamento piuttosto nervoso e dal respiro corto, a cui tenta di porre rimedio la prestazione impeccabile dell’orchestra.

A miglior esito approda l’esecuzione dello studio La campanella di Franz Liszt concessa come coraggioso bis: dietro la facciata di un’esibizione di pura tecnica prorompe qualche folata di autentico virtuosismo.