L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Beatrice Rana e  Lahav Shani

L'altra faccia di Čajkovskij

 di Alberto Ponti

Nel Primo concerto per pianoforte dell'autore russo emerge la vena più intima e cantabile.

TORINO, 26 gennaio 2017 - Una caratteristica da attribuire ai grandi pianisti russi è stata quella di rendere difficilissime, per gli inevitabili conseguenti confronti, composizioni che di per sé sarebbero solamente difficili.

Anche il Concerto n. 1 per pianoforte e orchestra in si bemolle minore op. 23 (1874/75) di Pëtr Il'ič Čajkovskij (1840-1893), con la sua enorme popolarità, non sfugge alla regola. Interpretazioni del livello di Gilels, Horowitz e Richter (per non citare che alcuni leggendari nomi) rimangono insuperate per lucidità poetica e potenza espressiva in un'opera dall'inesausto conflitto, spesso squilibrato, sempre irrisolto, tra solista e orchestra. Avremmo voluto ascoltare, pur non essendo russo, il sommo Arturo Benedetti Michelangeli. Egli non vi si cimentò mai in pubblico ma, a dire di chi lo conobbe e frequentò, diede alcune strepitose letture in forma privata della parte pianistica, definendola tuttavia, in modo molto ingeneroso, con l'ambiguità contraddittoria dei geni cui tutto è concesso, una 'trombonata'.

Beatrice Rana alla tastiera e Lahav Shani sul podio dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, entrambi assai giovani (rispettivamente 24 e 27 anni) ed esuberanti, danno vita a un'esecuzione che, sfuggendo in modo abile e originale al cliché di concerto 'muscoloso', finisce per metterne in luce il volto lirico e intimistico, non solo nell'Andantino semplice centrale, ammantato di grazie chopiniane, con i rimandi tra i ricami in punta di dita del pianoforte e i pizzicati degli archi. Anche nel monumentale primo movimento, con l'inventiva continua di Čajkovskij a rinvigorire con abbaglianti colpi di genio uno dei pezzi formalmente più originali della sua epoca, la pianista pugliese non si arrende mai ai facili effetti nelle ampie ottave a mani parallele, negli estesi accordi ribattuti e martellati: l'eloquio è incalzante ma misurato, il tocco morbido privilegia chiaroscuri e mezze tinte, in un gioco di grande eleganza in cui si distingue in filigrana ogni singola linea della complessa partitura. Nell'ultima delle tre cadenze così come nel brillante Allegro con fuoco finale, Beatrice Rana sfodera d'un tratto un approccio maggiormente aggressivo, capace, all'occorrenza, di mantenere alta la tensione emozionale di un lavoro che non ammette cadute di intensità.

I musicisti della Rai guidati da Shavi, anch'egli pianista di formazione (e lo dimostra la sua partecipazione alla deliziosa Berceuse della suite Dolly di Gabriel Fauré eseguita a quattro mani come encore), sono valida controparte per un concerto dalla scrittura decisamente sinfonica che affida sovente al tutti i passi di culminante enfasi melodica.

Nella successiva Sinfonia n. 5 in re minore op. 47 (1937) di Dmitrij Šostakovič (1906-1975) il direttore israeliano impone con autorevolezza e notevole maturità, nonostante la giovane età, la sua visione di una delle grandi pagine del Novecento. Shavi possiede un innato senso dinamico, evidente soprattutto nei primi due tempi, e riesce ad ottenere uno stupefacente assottigliamento del suono nei passaggi dai fortissimo più fragorosi ai filamenti di note che si affacciano alle soglie del silenzio, sia nel denso sviluppo e nella impressionante coda del Moderato iniziale (col canto dell'ottavino a estinguersi sui rintocchi della celesta) sia nella parte centrale dell'Allegretto a seguire.

Maggiore uniformità caratterizza invece il Largo e l'Allegro non troppo conclusivo, con ottoni e percussioni in evidenza a scatenare l'entusiasmo del numeroso pubblico che tributa per tutta la serata un riconoscimento ampio e inequivocabile a due interpreti da tenere d'occhio, di cui sentiremo ancora a lungo il nome.


 

 

 
 
 

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