david garrett, ryan mcadams

Passaggio in Russia

 di Alberto Ponti

L’accoppiata Garrett – McAdams si dimostra vincente nel concerto di Čajkovskij

TORINO, 4 marzo 2017 - Forse qualche lettore ricorderà, oltre vent’anni fa, una serie di puntate su Radio Tre, curate da Giorgio Pestelli e intitolate Čajkovskij, quasi un contemporaneo, in cui venivano presentate musiche note e meno note del compositore russo.

La definizione è attribuita a Igor Stravinskij (1882-1971) che, figlio di un cantante del teatro Mariinskij di San Pietroburgo, pare ebbe modo, ancora fanciullo, di incrociare il più anziano collega. Quanto questo fugace incontro con il celebrato maestro, al di là dell’indubbio aspetto simbolico enfatizzato da alcuni biografi, sia stato decisivo nella scelta del futuro autore del Sacre du printemps di intraprendere la carriera musicale è difficile dire, come sarebbe difficile trovare un punto di contatto fra il Concerto per violino e orchestra (1878) del primo e la Sinfonia in tre movimenti del secondo, ossia i due pezzi che costituivano il fulcro del programma di giovedì 3 e venerdì 4 marzo dell’Orchestra Sinfonica Nazionale.

Solista nel lavoro čajkovskiano era l’atteso David Garrett, capace di riempire i quasi 1500 posti dell’auditorium Rai fino all’ultima fila della galleria, in due serate che hanno acquistato subito il sapore dell’evento. Rispetto alla precedente apparizione torinese (un non memorabile concerto di Brahms nel 2015), il giovane tedesco-statunitense coglie in quest’occasione un successo pieno e indiscutibile, corollario di un pensiero interpretativo assai personale ma di assoluto valore. E’ infatti difficile trovare un’esecuzione di maggior libertà e licenza ritmica e dinamica, ma il livello tecnico rimane eccezionale per uno dei brani di maggior virtuosismo del repertorio violinistico.

A cominciare dall’Allegro moderato di apertura, sotto l’archetto di Garrett tutte le inflessioni vengono volutamente esagerate, dagli strappi nel registro profondo, di una drammaticità inaudita, agli arabeschi dei passaggi più distesi, infiorati di un’ironia scherzosa certo al di là delle intenzioni compositive, ma leggiadra e amabile. Il fraseggio sciolto, il serrato dialogo con un’orchestra in grado, allo stesso modo, di ispessirsi o di assottigliarsi fino a sonorità cameristiche, sotto l’attenta regia dal podio di Ryan McAdams, trascinano la parte più giovane del pubblico a un iconoclasta e calorosissimo applauso già alla fine del movimento. Luci e ombre, acrobazie e bronci improvvisi caratterizzano anche la successiva Canzonetta e l’Allegro vivacissimo finale, dal gesto turbinoso e umorale, che scatena un’ovazione prolungata per lunghi minuti, placata solamente da un paio di fuori programma, ovviamente sopra le righe, tra Vittorio Monti (Czardas) e Michael Jackson trascritto per le quattro corde.

Assai minuzioso è il lavoro di concertazione di McAdams nella Sinfonia in tre movimenti, uno dei più significativi lavori dello Stravinskij maturo, in bilico tra un oggettivo rigore costruttivo, evidente nei tempi veloci, e una spontaneità melodica che nell’Andante si distende in una grazia quasi schubertiana, tra le pennellate degli archi e i rintocchi dell’arpa concertante.

Il direttore non mostra il minimo segno di debolezza in un’opera dal dialogo contrappuntistico sempre serratissimo, col prezioso aiuto di strumentisti precisi e attenti alle molteplici indicazioni disseminate in partitura.

Il trentacinquenne originario del Missouri dispiega la propria versatilità anche negli ulteriori due capisaldi della letteratura sinfonica proposti all’inizio e alla fine del concerto. L’ouverture del Don Giovanni (1787) di Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) e il Bolero (1928) di Maurice Ravel (1875-1937) metterebbero un po’ di paura a qualsiasi giovane bacchetta, viste le tante eccellenti e storiche interpretazioni di entrambe le composizioni. L’impegno di McAdams si traduce in una lettura sostanzialmente corretta, passando dalle sonorità bilanciate del dramma giocoso settecentesco al sontuoso crescendo raveliano, al termine del quale, come da copione facilmente prevedibile, si ripete l’esultanza del pubblico elettrizzato da uno dei più perfetti meccanismi da applauso di tutta la storia della musica. E il pensiero va a quando avemmo la fortuna di ascoltare la celeberrima pagina, dalla stessa orchestra, con la guida di Georges Prêtre. Ai primi rintocchi del tamburo il grande maestro da poco scomparso sale in cattedra sul nostro podio ideale e, dall’alto dei mondi infiniti, continua a dirigere.