yuri bashmet e i solisti di mosca

Viola russa

 di Roberta Pedrotti

Splendido concerto di Yuri Bashmet con i Solisti di Mosca per Musica Insieme: un percorso affascinante fra il suono della viola e il repertorio russo e sovietico del XX secolo.

BOLOGNA, 13 marzo 2017 - Stretta fra la brillantezza del violino e la pastosità del violoncello, la viola è la sorella di mezzo che fatica a imporre la propria personalità. Rischia di batterla anche il contrabbasso, quando si emancipa dai borbottii a fondamenta dell’armonia e fa sentire la sua voce cupa, o si presta al gioco del jazz. Invece la viola in orchestra è raro faccia più che da ripieno, come è raro che la letteratura solistica e cameristica le riservi qualche attenzione più: Puccini, Berlioz e pochissimo altro fino al XX secolo, quando l’interesse dei compositori sembra risvegliarsi. Sembra però che la sorella di mezzo debba ancora sgomitare per far riconoscere la propria personalità individuale fuori dall’ombra ingombrante del parentado. Ci riesce senz’altro quando a suonarla è Yuri Bashmet, che non solo è un musicista di prim’ordine dotato di tecnica sopraffina, ma, quel che forse più conta, coglie l’anima dello strumento e se ne fa paladino e portavoce. Non un violino un po’ più basso o un violoncello un po’ più acuto, ma una voce dal timbro inconfondibile, fra l’avorio e il legno chiaro, calda ma anche leggera, asciutta, con una sua peculiare agilità, un’articolazione idiomatica dai gustosi aromi popolari, dai contorni insolenti. Lo proclama quando deve intonare la trascrizione della Canzone della fanciulla da Mavra di Stravinskij, con il suo carattere piccante fra ironia e melanconia dal sapore spiccatamente slavo; senso del melos, sapido tratteggiare spigoli e sinuosità, classe: sembra proprio che non manchi nulla a Bashmet, e lo conferma la disinvoltura con cui passa dall’archetto alla bacchetta, forte anche dell’eccellenza del complesso dei Solisti di Mosca, da lui stesso fondato.

Suono di rara incisività, musicalità chiarissima, sempre intellegibile in una precisione che non rinunzia a entrare nel senso della pagina scritta, i Solisti di Mosca sono un modello esemplare per ogni ensemble di questo genere, una ventina di persone efficaci come se fossero cinquanta, affiatate, rifinite e precise come fossero una. Il programma che propongono, poi, è una bellissima cavalcata attraverso diversi volti del Novecento sovietico: si comincia un autore che dal governo ebbe solo premi e riconoscimenti, Georgij Svidorov con la Sinfonia da camera op. 14 per archi, permeata da una raffinata quanto accattivante e per nulla scontata cantabilità. Segue, con la citata trascrizione da Mavra (scritta per Parigi ma dedicata alla memoria di Puškin, Glinka e Čajkovskij), Stravinskij, che dalla natìa Russia era partito già nel 1910 per intraprendere una carriera quantomai cosmopolita. La trascrizione, a cura di Rudolf Barshai, delle Visions fugitives op. 22 ricorda, nella profondità con cui dispiega umori caratteristici, i rapporti più tormentati fra Prokof’ev e Stalin, finché la morte, ironica, non decise di coglierli nel medesimo giorno, 5 marzo del 1953.

Nel 1994, dissolta ormai l’URSS, Alfred Schnittke, ripresosi dopo una serie di gravissimi e traumatici problemi di salute, sembra ricercare quasi maniacalmente un ordine nel suo Concerto a tre per violino (Andrei Poskorobko, formidabile per il suo spregiudicato, scientifico acume timbrico e virtuosistico), viola (Yuri Bashmet) e violoncello (Alexei Naidenov, dalla duttilissima cavata): dal grave all’acuto ogni solista guida una sezione, una per volta, movimento per movimento, compenetrandosi poi gradualmente, come a ricercare un ordine perduto, che però si rivela impossibile, in un’armonia che non sembra più poter sfuggire a dissonanze, irregolari, effetti scordati. Così il Minuetto finale è sospeso fra tragedia e ironia, come un labirinto da cui è impossibile sfuggire finché un musicista non si alza, raggiunge il pianoforte e colpisce la tastiera con un cluster perentorio. Dopo lo shock gli archi si ricongiungono e si raccolgono per porre fine al concerto, ma la risoluzione è solo apparente.

Chiude il programma il compositore più emblematico dei rapporti fra arte e vertici sovietici: Šostakovič con il suo Quartetto op. 110 (dedicato alle vittime del fascismo e della guerra) trascritto da Barshai come Sinfonia da camera per archi. Un grande classico che non perde nulla del suo fascino e della sua forza ampliando l’organico, sia per merito di Barshai, grande interprete di Šostakovič, sia per la valentia degli artisti sul palco.

Davvero un grande concerto, coronato da uno sfavillante bis: la Polka di Schnittke, sfrenata, sarcastica e suonata – Bashmet ovviamente solista – come meglio non si potrebbe.