John Axelrod

I fantastici tre

 di Alberto Ponti

Berlioz, Turina e Stravinskij rifulgono sotto la bacchetta di John Axelrod

TORINO, 24 marzo 2017 - Nonostante, e pare incredibile, siano passati quasi due secoli dalla prima esecuzione parigina del 1830, la Symphonie fantastique op. 14 di Hector Berlioz (1803-1869) continua ancora oggi a suscitare un’ammirazione non priva di sconcerto.

Fino a tutto il XVII secolo e oltre intere esistenze di compositori come Mozart e Schubert erano trascorse nella creazione di centinaia di capolavori senza provocare memorabili scandali tra il pubblico dell’epoca. Berlioz entra invece a gamba tesa nel romanticismo europeo, con una sinfonia dalle proporzioni e dall’organico inconsueti (per di più accompagnata da espliciti riferimenti extramusicali allo sviluppo tragico di un amore infelice) e creando uno scompiglio che accompagnerà, in maniera non sempre immotivata, pure buona parte della sua produzione posteriore.

Opera geniale ed eccessiva, rivelazione di una personalità straripante, la Fantastique si pone a fondamento di un sinfonismo francese destinato anch’esso ad avere vita assai movimentata e poco lineare, finendo per cogliere, sulla strada indicata dallo stesso Berlioz, i suoi frutti migliori nel campo contiguo della musica a programma.

Stupisce, in un autore poco più che venticinquenne, la completa e originalissima padronanza della tavolozza orchestrale, ricca di intuizioni e premonizioni già quasi novecentesche, come diversi passi del conclusivo Songe d’une nuit du sabbat: vera e propria musica concreta che, al di fuori dell’architettura timbrica, si fatica a inquadrare negli schemi armonici convenzionali.

John Axelrod, alla sua prima apparizione torinese del 2017 declina la partitura con fare veemente ed energico, soprattutto nei due movimenti finali. La Marche au supplice, dalla strumentazione inaudita per il terzo decennio dell’Ottocento, precipita, senza alcun compiacimento per il bel suono, rude e inesorabile verso la catastrofe, dando voce all’incubo dell’artista di essere condotto al patibolo.

In contrapposizione all’inferno del sabba, concertato con grande pulizia di tutte le voci ma calcando un po’ troppo certi fortissimo di ottoni e percussioni, nei primi tre tempi il direttore americano, già allievo di Leonard Bernstein, asseconda le atmosfere più delicate e pastorali (refoli beethoveniani permettendo) tratteggiate dal pennello di Berlioz. Esemplare per raffinatezza è la lunga Scêne aux champs, in funzione di adagio centrale dell’opera, aperta dal dialogo tra l’oboe fuori scena e il corno inglese che coinvolge poco a poco l’intera orchestra con una serie di memorabili idee melodiche per spegnersi nel brulichio indistinto delle percussioni, in una delle più efficaci rappresentazioni dell’avvicinarsi di un temporale.

La chiamata ad alzarsi di tutte le parti dell’Orchestra Sinfonica Nazionale conclude, tra prolungati applausi, l’esecuzione di questo caposaldo del repertorio, che era stata preceduta da alcuni brevi pezzi caratterizzati nel titolo dal medesimo aggettivo: le tre Danzas fantasticas (1919) di Joaquín Turina (1882-1949), con la loro marcata ispirazione al folclore spagnolo, mitigata da una sapiente orchestrazione appresa alla scuola di Vincent d’Indy, e lo Scherzo fantastique op. 3 (1907-08) del giovane Igor Stravinskij (1882-1971). Pagina tra le più riuscite del primo periodo di attività del futuro autore de L’uccello di fuoco, la fremente e finissima trama melodica che la percorre da capo a fine dà la misura della serata particolare degli archi, in forma superlativa, chiamati da lì a poco ad esaltarsi nella sfacciata teatralità della scrittura berlioziana.