daniele gatti

Il filo sospeso 

 di Roberta Pedrotti

Dopo dieci anni torna all'ombra delle Due Torri, Daniele Gatti, già direttore musicale del Comunale e ora ospite d'onore della stagione di Bologna Festival con la Mahler Chamber Orchestra. Nonostante le premesse e il bel programma fra Schubert e Webern, però, la serata non si rivela all'altezza delle aspettative.

BOLOGNA, 19 aprile 2017 - Dieci anni fa scadeva il contratto con il Teatro Comunale e Daniele Gatti lasciava Bologna dopo due lustri da direttore musicale. Da allora, in ordine sparso, due inagurazioni scaligere, il debutto a Bayreuth, le collaborazioni con il Concertgebouw di Amsterdam, l’Orchestre National de France e via così, in un lussureggiante elenco di blasonatissime orchestre: i motivi sono molti per accorrere curiosi a questa rentrée in quell’Auditorium Manzoni che lui stesso aveva inaugurato il 16 aprile del 2003 (Giorgio Zagnoni si esibì al flauto, cantarono, anche un duetto felino pseudorossiniano con Gatti al piano, Anna Caterina Antonacci e Lucio Dalla).

Per di più il programma intriga non poco: due compositori viennesi, Schubert e Webern, separati da un secolo buono, uno vissuto a cavallo dell’avventura napoleonica e della Restaurazione, l’altro giunto a vedere le tragedie di due Guerre Mondiali. Da una parte l’eredità diretta di Haydn e Mozart, dall’altra le propaggini estreme dell’avanguardia di Schönberg. La presenza della Mahler Chamber Orchestra a far corona al podio garantisce qualità e completa il quadro composito di attese e aspettative.

Attese e aspettative, per la verità,immerse in una curiosa atmosfera, ben palpabile in sala. Come fra due ex fidanzati che si ritrovano all’improvviso dopo anni dalla fine di un rapporto lungo e turbinoso, un misto di opposte emozioni – beninteso, anche d’affetto – decantate nel tempo e fiammeggianti solo un decennio fa sfocia in una sorta di serpeggiante reciproco imbarazzo.

Nel riallacciare fili sospesi, Daniele Gatti ricompare, in realtà, esattamente come lo ricordavamo, nel bene e nel male. Potrebbe sembrare un paradosso che un interprete wagneriano del suo calibro, reduce dal successo personale incontrastato dei Meistersinger alla Scala [leggi la recensione], si trovi in difficoltà con due sinfonie di Schubert della durata di men di mezz’ora ciascuna, ma non v’è nulla di troppo bizzarro in questo, e l’aveva già predetto Adorno disquisendo del rapporto fra strutture wagneriane e ruolo del direttore d’orchestra. Quel che può essere apparentemente più semplice, se non altro per le dimensioni e gli organici più maneggevoli, rischia di celare insidie assai maggiori: la raffinatissima costruzione di Schubert esige una cura delicata del dettaglio e del disegno complessivo, dell’accento e dell’articolazione. Purtroppo Gatti in questi dettagli trova trappole cui non sempre riesce a sfuggire, smarrendosi sovente all’inseguimento di quel tratto personale che, però, nel cesellare un fregio, perde di vista il suo scopo e la sua collocazione nell’architettura. Nonostante la qualità tecnica dell’orchestra, la Terza e la Sesta Sinfonia procedono erratiche navigando, si direbbe, a vista, mentre il nocchiero esterna la sua partecipazione fra respiri ansiosi e abbozzi di canto.

Ed è un peccato che non si tragga maggior partito dalle qualità, indubbie e indubitabili anche stasera (basti ascoltare la morbidezza intrinseca di certi fiati), della Mahler Chamber Orchestra nelle due pagine di Anton Webern, che tanto si gioverebbero di un suono più netto e levigato sia per esprimere l’intenso, peculiare lirismo del Langsamer Satz (trascritto per orchestra d’archi da Gerard Schwarz) e l’alternanza dinamica ed espressiva dei Fünf Sätze (trascritti dallo stesso autore), sia per dar corpo più trasparente ed eloquente all’architettura armonica dell’ultimo apostolo della Seconda scuola di Vienna.

Non è, insomma, l’esecuzione ideale per scaldare gli animi e sciogliere l’attesa in un abbraccio per il ritorno di Gatti a Bologna. Gli applausi ci sono, anche ritmati, ma l’entusiasmo è un’altra cosa.