L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tilson Thomas/K. & M. Labèque

Dittico austriaco

  di Stefano Ceccarelli

L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ospita l’americano Michael Tilson Thomas, che esegue la Sinfonia n. 5 in do diesis minore di Gustav Mahler. Il primo tempo, invece, è occupato dal Concerto per due pianoforti in mi bemolle maggiore K 365 di Wolfgang Amadeus Mozart, eseguito dalle famose sorelle Katia e Marielle Labèque. Gli applausi sono molti e calorosi.

ROMA, 29 maggio 2017 – In apertura di serata, il primo violino C. M. Parazzoli annuncia che il concerto sarà dedicato alle vittime della ancor recente, orribile strage di Manchester. Avanzano sul palco le sorelle Labèque e il direttore Tilson Thomas. Quasi non si distinguono Katia e Marielle: identica mise , infiorettata da qualche paillettes , le sorelle si siedono ai due pianoforti e si comincia col Concerto K 365 di Mozart. L’ Allegro ci fa già gustare l’ottima intesa fra le due pianiste e l’orchestra, che suona divinamente, al solito: tutto scorre bene, i dialoghi fra i due strumenti, le riprese, i passaggi che richiedono un timing impeccabile. Del resto le due interpreti sono versatissime in questo repertorio: chissà se il loro tocco fatato, l’attenzione al suono ‘atmosferico’, porto sempre con parsimonia anche nei momenti di maggiore intensità, non sia da ascrivere agli insegnamenti impartiti dalla loro madre, a sua volta allieva di una grande pianista, a cavallo fra i due secoli passati, qual fu Marguerite Long, amica di Fauré e allieva dei maestri di Debussy e Bizet. Insomma, quel gusto tutto francese del suono raffinato rivive ora in Katia e Marielle. Come si amalgamano bene all’orchestra, centrando scale e fioriture. Forse manca un pizzico di brillantezza da parte di Tilson Thomas nella sua direzione, che pur lascia – a ragione – molto spazio all’interpretazione delle pianiste, fulcro del concerto. Incantevole, soprattutto nelle oasi di pure melodie, l’ Andante : qui, senza riserve, agogica, esecuzione pianistica, orchestra, tutto è perfetto. Basti a testimoniarlo l’esecuzione perlacea delle linee melodiche e l’attenzione nei passaggi da tonalità minori alle maggiori. Anche il finale rondò riesce bene: brillantezza, vivacità, prontezza di riflessi nel dialogo dei due strumenti. Insomma, per dirla con le sempre competenti parole di Mauro Mariani dal programma di sala, il concerto è puro «teatro senza parole» (con vago sapore mendelssohniano). Deliziosa la cadenza, ricca di note zampillanti e culminante in un coordinato trillo fra i due strumenti veramente notevole. Il concerto si chiude fra gli applausi. Le Labèque si congedano con un bis contemporaneo, tratto dal loro repertorio prediletto: il quarto pezzo tratto dai Four movements for two pianos di Philip Glass, loro amico e punta di diamante del minimalismo, un crescendo di intensa bellezza.

Il secondo tempo è interamente dedicato alla Quinta di Mahler. Tilson Thomas, sulla carta, è un mahleriano: ha infatti inciso tutte le sinfonie dell’austriaco. Tuttavia chiarirò subito che non tutto mi ha convinto, pur affermando decisamente che l’esecuzione è stata eccellente, esaltando l’applauso del pubblico. Il direttore ha un gesto netto, quasi disarticolato, almeno a tratti. Dopo l’enigmatico assolo della tromba che apre il Trauermarsch , con grande potenza Tilson Thomas conduce l’orchestra a grande tensione; poi, la marcia funebre: qualcosa leggermente si scolla, troppo bandistica questa marcia allucinata – con quel senso non dico parodico, ma certamente ‘para-sinfonico’ cui Mahler non è certo nuovo – che altri direttori, come Boulez, Bernstein o Abbado, hanno resto con più consapevole pienezza. Come un fiume in piena, lo Stürmisch bewegt avanza inarrestabile: certamente – e giustamente – in Mahler Tilson Thomas sente molta energia, che non lesina di esprimere chiaramente. Riesce bene lo Scherzo : tutta l’atmosfera frizzante dell’apertura è ben sentita; egualmente ben amalgamati sono i momenti con orchestra più rarefatta (i pizzicati degli archi, gli assoli del corno) a quelli a piena strumentazione. Il tema allusivamente coreutico degli archi entra bene. L’ Adagietto è, forse, il movimento che riesce meglio a Tilson Thomas: ottimo il respiro ampio tenuto nell’agogica per leggere le frasi mahleriane, come l’attenzione timbrica ai momenti estatici degli archi trapunti dalle note dell’arpa. Il finale regge bene, soprattutto nella sua potenza e nell’agogica sostenuta intrapresa dall’americano, ma non tutto è propriamente raffinato. La sala esplode in applausi sinceri.


 

 

 
 
 

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