L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

enescu festival

Le migliori orchestre del mondo

 di Giulia Vannoni

Al Festival Enescu di Bucarest grande successo per la London Philharmonic Orchestra e la Russian National Orchestra, dirette rispettivamente da Jurowski e da Pletnev.

BUCAREST, 3, 4 settembre 2017 – Difficile ascoltare a distanza così ravvicinata concerti sinfonici di livello altrettanto elevato. È vero: siamo a un festival – quello di Bucarest dedicato a Enescu – ma spesso nemmeno un contenitore prestigioso rappresenta una garanzia.

Dopo il successo ottenuto nella serata inaugurale con l’esecuzione di Œdipe, il giorno successivo è tornata a esibirsi nell’immensa Sala del Palatului (4.000 posti!) la London Philharmonic Orchestra, ancora con Vladimir Jurowski che ne è direttore stabile, mentre la sera successiva ha ceduto il palcoscenico alla Russian National Orchestra, guidata da Mikhail Pletnev. In entrambi i casi si è trattato di programmi non facili e tutt’altro che rassicuranti, ma che il pubblico ha seguito con straordinario interesse.

A latere di questi grandiosi appuntamenti, nello storico e più piccolo Ateneul Român – unanimemente ritenuto l’auditorium più bello di tutto l’Est europeo – si susseguivano altri concerti di minori proporzioni. Se l’Academy of St Martin in the Fields ha inframmezzato un programma beethoveniano (Ouverture dall’Egmont e Quinta sinfonia) con il Concerto per violino in sol minore op.26 di Bruch, potendo contare su un solista del calibro di Joshua Bell – e pazienza se un inconveniente al suo prezioso Stradivari ne ha caricato di suspence l’esibizione – anche due gruppi italiani di musica antica sono stati accolti nella magnifica sala, per dei concerti vocali. La prima sera, l’Europa Galante di Fabio Biondi si è cimentata con musiche interamente vivaldiane; il giorno dopo la Venice Baroque Orchestra, diretta da Andrea Marcon, ha invece affrontato Händel: nei due casi, la migliore dimostrazione di come il repertorio antico di marca italiana sia apprezzato ovunque. Meno felice, invece, l’accostamento con le soliste di canto, entrambe appartenenti al gotha dello star system: per Vivaldi il mezzosoprano Vivica Genaux e per Händel un’altra blasonatissima cantante, Magdalena Kožená. Pur molto lontane per stili interpretativi, hanno evidenziato i limiti di voci un po’ usurate e, dunque, poco adatte a fare rivivere i fasti del “meraviglioso” legati al barocco.

Di altissima qualità, invece, i due appuntamenti sinfonici. Il programma della London si è aperto con il preludio dal Tristano. Un’esecuzione immacolata, dove a prevalere erano la seduttività del suono, con la sua perfezione millimetrica, e il suo estenuato e avvolgente fluire, dato che Jurowski ha preferito lasciare in secondo piano quegli aspetti tragici che fin dalle prime battute velano di ambiguità il capolavoro wagneriano. Voltando radicalmente pagina si è passati a Berg e al Concerto per violino e orchestra, quello dedicato “Alla memoria di un angelo” (ossia a Manon Gropius, sfortunata figlia di Alma Mahler, morta a soli diciotto anni). Splendido solista, Christian Tetzlaff è riuscito a trasmettere la straziante sofferenza che la musica veicola, spingendosi oltre l’esclusivo rispetto del rigore formale e scongiurando il rischio di rendere algida una pagina densa di dolorose componenti emotive. D’altra parte, con il senno di poi, in questo concerto – ultimato nel luglio del 1935 e che rappresenta una summa del modo di comporre di Berg – è possibile leggere il testamento artistico del musicista, che morirà la vigilia di Natale dello stesso anno. La serata si è conclusa con un brano (rarissima la sua esecuzione in Italia) di Šostakovič del 1957: l’Undicesima sinfonia in sol minore op.103, scritta per ricordare la strage dei lavoratori compiuta a San Pietroburgo dalle truppe dello zar nel 1905 e resa famosa dal film La corazzata Potëmkin. Costruita sul contrasto di atmosfere che caratterizzano i diversi movimenti, alterna una serie di ‘adagi’, che si presentano come un’oasi pacifica, ad ‘allegri’ che corrispondono al deflagrare di una violenza via via più parossistica. E pur senza l’ausilio delle immagini di Ėjzenštejn, nella lettura di Jurowski emergeva in modo nitido la plasticità della costruzione musicale, grazie anche alla scelta di legare fra loro i movimenti senza soluzione di continuità, come se nelle fasi più distese fosse già contenuto il seme di una furia esplosiva.

Basato su brani inusuali – sempre per noi italiani – anche il concerto della Russian National Orchestra (magnifico ensemble fondato a Mosca nel 1990, che vive grazie a finanziamenti privati), diretto da Mikhail Pletnev. La serata si è aperta con un omaggio a Enescu: il poema sinfonico Isis del 1923, rimasto incompiuto e orchestrato da un altro musicista rumeno, Pascal Bentoiu. Un brano d’intenso fascino per le sue atmosfere rarefatte, capaci di delineare suggestive fasce sonore, sempre molto ben valorizzate dagli impeccabili esecutori. È poi toccato al Terzo concerto per pianoforte in do maggiore op.26 di Prokof’ev: una pagina del 1921 basata su profondi contrasti fra momenti di autentico lirismo, riconducibili alle ampie melodie di carattere russo, ad altri governati da un implacabile rigore ritmico. L’austero Pletnev, dal gesto parco e assai poco incline all’enfasi, e l’ottimo pianista Nikolai Lugansky – dalla sbalorditiva sicurezza – hanno esaltato il nitore formale, le proporzioni quasi classiche e la logica ferrea che scandisce la scrittura di Prokof’ev. Nello stesso tempo si sono preoccupati di evidenziare accuratamente la straordinaria energia ritmica di questo concerto che prevede persino l’insolito uso delle nacchere (rendendo necessario il ricorso a cinque percussionisti). La serata si è conclusa con la Sesta sinfonia in mi bemolle minore op.111: uno dei vertici più alti mai raggiunti da Prokof’ev. Dopo il bellissimo primo movimento ‘allegro moderato’ costruito su raffinatissimi contrasti timbrici, esaltati dagli strepitosi fiati dell’orchestra, si procede attraverso un caleidoscopio di episodi basati su nette contrapposizioni, che non concedono un attimo di tregua all’ascoltatore e lo costringono a interrogarsi sulle ragioni di una musica e di scelte compositive che, nel 1947, proponevano una riflessione sulla guerra appena conclusa.

Alcune osservazioni le merita il pubblico rumeno, sempre numerosissimo ad ogni concerto del Festival Enescu: competente, educato e silenzioso (nessuno si sogna di sbirciare il telefonino), commenta quello che ascolta e, soprattutto, accoglie con interesse e curiosità programmi poco scontati e spesso difficili. Per loro, giustamente, rappresentano una preziosa occasione di conoscenza.


 

 

 
 
 

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