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Tredici per Gioachino

 di Francesco Lora

Al Teatro alla Scala l’ancora poco nota Messa per Rossini, composta da Verdi e altri dodici, ha fatto da prologo alle celebrazioni commemorative del 2018. Dirette da Chailly con questo programma significativo, le maestranze milanesi vantano la loro eredità storica.

MILANO, 15 novembre 2017 – La storia non è così nota, dunque la si va a narrare. Alla morte di Rossini Giove e padre dell’Ottocento musicale europeo, un Verdi conscio di quanto il progetto fosse ambizioso – se non direttamente fonte di grane – si fece promotore di una messa per i defunti in onore di lui, composta a più mani dai più illustri compositori italiani. Per individuarli fu istituita una commissione, che – anno 1869 – incassò l’indisponibilità del malato Saverio Mercadante (74 anni) ma non quella dell’irriducibile Carlo Coccia (ben 87). Frammentata la sequenza funebre Dies iræ in sette “numeri” musicali, quest’ultimo si fece carico del «Lacrymosa» che ne segna la conclusione; Verdi tenne invece aristocraticamente per sé il Libera me, testo appartenente non alla messa bensì, giustapposto al suo termine, evocativa parte del pio ufficio della sepoltura. Già scomparsi Pacini, Donizetti e Bellini, qui terminava la terna degli indiscutibili. Individuare gli altri non fu facile, anche poiché si sottintendeva una qualche pratica col linguaggio della musica sacra: una carriera da operista non bastava a garantirla. Rimasero esclusi i giovani, tanto più se in odore di scapigliatura, irriverenti verso i grandi vecchi o marchiati da un primo insuccesso: dunque niente Boito (27 anni), niente Faccio (29) e niente Ponchielli (35).

In ultima istanza, questi furono i nomi designati e gli incarichi distribuiti: Antonio Buzzolla (54 anni) per il Requiem æternam e il Kyrie, Antonio Bazzini (51) per il «Dies iræ», Carlo Pedrotti (52) per il «Tuba mirum», Antonio Cagnoni (41) per il «Quid sum miser», Federico Ricci (60: Luigi, fratello e collaboratore, era morto da un decennio) per il «Recordare», Alessandro Nini (64) per l’«Ingemisco», Raimondo Boucheron (69) per il «Confutatis», Gaetano Gaspari (61) per l’Offertorio, Pietro Platania (41) per il Sanctus e il Benedictus, Lauro Rossi (57) per l’Agnus Dei e Teodulo Mabellini (52) per il Communio. L’esecuzione avrebbe dovuto aver luogo, una tantum, nella colossale basilica bolognese di S. Petronio; a partitura completata, però, l’operazione naufragò dietro gli interessi personali di chi, richiesto di contribuire con materiali e organici, non vide in essa alcuna allettante prospettiva di lucro. Verdi se ne indignò, ma da quell’esperienza iniziò a germinare in lui l’idea della Messa di Requiem licenziata cinque anni dopo con dedica ad Alessandro Manzoni: estesamente revisionato, ma già impressionante, l’inedito Libera me trovò lì la sua sistemazione definitiva. Il resto delle musiche rimase abbandonato e inaccessibile fino al 1988, quando fu recuperato dallo studioso David Rosen e finalmente avviato all’esecuzione.

Alla vigilia del 150° anniversario della morte, benvenuta è stata la ripresa al Teatro alla Scala di questa Messa per Rossini. Le esecuzioni del 10, 12 e 15 novembre sono state bramate da Riccardo Chailly, che nel suo ruolo di direttore musicale ha così confermato la premura affinché il teatro milanese riscopra, affermi, mediti e vanti con rinnovato slancio un’identità unica al mondo. Dallo studio capillare con l’orchestra e il coro scaligeri è emerso ciò che avrebbe fatto dubitare anche Verdi: una galleria di “numeri” musicali che attingono a stili disparati quanto i loro autori, e che tuttavia sorprende per impegno e pregio, oltre a informare sulla varietà d’indirizzi praticati all’ombra di Giuseppe da Busseto; indi la capacità di generare con la sagacia interpretativa una coerenza che colleghi in lampante continuità quello sproporzionato discorso-staffetta interrotto e ripigliato una dozzina di volte. Inusuale è persino il gruppo dei solisti: non il canonico quartetto misto, ma un quintetto con baritono. María José Siri, soprano, si districa nel lungo impegno con smalto, tenerezza, pathos. Veronica Simeoni, sempre esatta, foraggia il sospetto d’essere più soprano puro che mezzosoprano. Italica comunicativa nel tenore Giorgio Berrugi, idiomatica protervia nel baritono Simone Piazzola, gran spolvero di armonici nel basso Riccardo Zanellato.