Lo stile piano

 di Giuseppe Guggino

In vista dell’attesissimo recital all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia previsto per il 4 dicembre, Maurizio Pollini fa tappa al Teatro Massimo di Palermo per una sorta di prova generale del programma. Il clima per nulla formale della serata consente di cogliere forse al meglio l’arte del celebrato pianista milanese, capace di dire molto di nuovo, dopo quasi sessanta anni di carriera. La sala totalmente sold out gli tributa una lunga ovazione finale.

Palermo, 25 novembre 2017 - La sala è completamente piena, il pubblico assiepato anche alle spalle del gran coda nero in proscenio, ma guardandosi intorno non si coglie affatto l’aria della serata di gala; poi le luci si abbassano e Pollini si dirige senza fronzoli con passo speditissimo allo strumento. E il passo è già rivelatore del tocco dei primi due Notturni op. 27, asciutto, essenziale, tormentato.

Poi la prima parte del programma continua a snodarsi inanellando opere della maturità di Chopin; prima le due Ballate op. 47 e op. 57, fino alla Berceuse, nella quale il clima salottiero parigino è sì reso, ma senza alcuna stucchevole concessione glicemica né eccedere nei rubati che le variazioni richiedono.

Contrasti drammatici estremizzati pervadono la lettura dello Scherzo op. 20, nel quale il disegno interpretativo non vuole scendere a compromessi con l’agogica, scontando inevitabilmente qualche comprensibile perdita di trasparenza, pur di tenere fede allo spirito del pezzo. Sono quei rischi che, se corsi, fanno la differenza tra il buoni pianisti e i geni, e che collocano ampiamente Pollini tra i secondi.

L’intervallo sembra trascorrere più rapidamente del solito, fra i commenti ammirati che si captano in sala, ché le luci si riabbassano di già per la seconda parte del concerto, introdotta dalle tre mazurche op. 56 e largamente occupata dalla grande Sonata in si minore op. 58; ed è nelle proporzioni di questa pagina di ampio respiro che il nervosismo del pianismo polliniano può distendersi e articolarsi in una maggiore varietà di tinte. La cantabilità del tema nel primo tempo rimane meno spiegata rispetto all’edizione discografica degli anni ’80, mentre immutato è il senso del brio vorticoso nell’attaccare il secondo tempo; è il grande tema del Largo che con la maturità pare guadagnare in introspezione, con la rapida transizione al Finale senza soluzione di continuità (soluzione forse non premeditata, ma funzionale ad evitare l’ennesimo applauso dell’uditorio tra i vari movimenti) a chiudere il concerto in maniera estremamente teatrale.

Persistenti gli applausi, interrotti da un unico bis, lo Scherzo op. 39, con il tema ben evidente su delle liquidissime volatine discendenti, a suggellare una serata per certi versi unica.

Appuntamento a Santa Cecilia, per non perdere lo stile “piano” di uno dei grandi signori della musica.