Dresda a Salisburgo, concerti per Richard Strauss

di Francesco Lora

Trasmesso dai Berliner Philharmoniker alla Staatskapelle di Dresda, il Festival di Pasqua di Salisburgo è quest’anno un omaggio a Richard Strauss, nel centocinquantesimo anniversario della nascita. Oltre le recite di Arabella, a festeggiarlo vi sono concerti memorabili e interpreti vertiginosi: Christian Thielemann, Christoph Eschenbach, Anja Harteros e Gautier Capuçon.

SALISBURGO, 19-21 aprile 2014 – Fondato nel 1967 da Herbert von Karajan, il Festival di Pasqua di Salisburgo aveva, per il grande direttore, uno scopo implicito e poi confessato ai biografi: lavorare più di frequente e più nel profondo sul teatro wagneriano, o comunque sul repertorio operistico, e far scendere in un golfo mistico – ossia in un’esperienza teatrale completa – i “suoi” Berliner Philharmoniker, orchestra di vocazione altrimenti tutta sinfonica. Con il passaggio dell’eredità di Karajan prima a Claudio Abbado e poi a Simon Rattle, i propositi iniziali e l’attaccamento dei Berliner a Salisburgo si sono via via sfilacciati, finché l’anno scorso il Festival è passato ad altra orchestra residente e ad altro direttore artistico: la Staatskapelle di Dresda e Christian Thielemann. E non si sarebbe potuto sperare di meglio, poiché l’una e l’altro costituiscono, oggi più che mai, eccellenze pari o superiori a quelle berlinesi.

La ricetta adottata l’anno scorso da Thielemann è tornata buona anche per il cartellone di quest’anno (12-21 aprile): un compositore protagonista del quale ricorre un anniversario, un suo precursore o epigono o concorrente da affiancargli, un compositore odierno che porti testimonianza della musica contemporanea e infine un direttore ospite con il quale spartire il podio. L’anno scorso era toccato rispettivamente a Richard Wagner, Johannes Brahms, Hans Werner Henze e Myung-Whun Chung; quest’anno è toccato a Richard Strauss, Wolfgang Amadé Mozart, Wolfgang Rihm e Christoph Eschenbach. Rimane la struttura simmetrica a clessidra: due cicli interi e speculari degli spettacoli, con le due rappresentazioni di un’opera in apertura e chiusura del Festival, in mezzo i concerti e al centro esatto un concerto straordinario dedicato alla città ospite, ai suoi abitanti e alle sue istituzioni. «L’Ape musicale» ha seguìto le serate con programma straussiano, e dunque la recita finale di Arabella, recensita a parte, due concerti sinfonici e un concerto da camera: di questi ultimi si va a dire.

Il concerto sinfonico del 14 e 19 aprile nel Grosses Festspielhaus, articolato nelle due parti canoniche, ha opposto valve di segno differente. Il primo tempo è spettato a Mozart e al suo Concerto in Do maggiore per pianoforte e orchestra KV 467. Con il passare degli anni cambiano la prassi esecutiva, l’esperienza dell’ascolto e il senso dell’idealità, con esiti che a volte paiono né credibili né riferibili. Nel benvenuto dilagare di esecuzioni del repertorio classico con strumenti originali, con fraseggi più che mai analitici e con sonorità più che mai ronzanti e pungenti, l’incedere vellutato e seduto di una Staatskapelle risulta oggi sì colmo di dignità, ma anche ponderoso e polveroso, come certe inestimabili tappezzerie da salotto d’antan, conservate più per il loro intrinseco valore materiale e antiquario che amate per il loro lutulento contributo alla cultura del momento. Né la bacchetta sovrana di Thielemann, consacrata al Romanticismo tedesco, sembra più allenata ad accendere le argute scintille della Vienna illuminista.

Affettuosa amarezza si appunta poi intorno al solista, Maurizio Pollini, còlto a una tappa del suo astrale declino verso il pianismo dei mortali. Toccate dai suoi settantadue anni, si ascoltano pur sempre frasi che si involano con una stilizzazione, un legato, un’autorevolezza con pochi termini di confronto. Troppo di sovente, però, nel cristallo si scopre l’incrinatura della frase sporcata o spezzata, o affrettata o allentata, per affaticamento tecnico e tensione nervosa, fino a mettere in crisi il rapporto con l’orchestra e l’intesa con il direttore. La presentazione di due nuove brevi cadenze per i movimenti primo e terzo, composte da Salvatore Sciarrino ad uso personale di Pollini, sbalza a sua volta l’ascoltatore verso orizzonti stilistici lontani da Mozart, e sembra preservare il virtuoso da un’esposizione vissuta con ansia crescente.

La situazione si è ribaltata nella seconda parte del concerto, dedicata a Strauss tramite il celebre poema sinfonico Also sprach Zarathustra op. 30 e i Vier letzte Lieder op. 150. Per la verità, i Lieder presentati sono stati cinque, ché tra il primo e il secondo del ciclo (Frühling e September) è stato inserito il pudico Malven, il vero ultimo pezzo vocale da camera firmato da Strauss, tenuto per lungo tempo nascosto dalla dedicataria Maria Jeritza e qui presentato in una sobria orchestrazione appositamente approntata da Rihm. La Staatskapelle di Dresda condivide con i soli Wiener Philharmoniker quell’apostolato straussiano cui le altre orchestre possono solo aspirare. Allo stesso modo, la militanza di Thielemann nella produzione del grande compositore, tramontate le generazioni dei Böhm e degli Solti, non teme oggi concorrenza veruna. Ed ecco presentato una tra i più sublimi concerti da ricordare in una vita da ascoltatore. A innalzare il merito partecipa Anja Harteros, il più stimabile soprano tedesco oggi alle scene, e soprattutto una straussiana nata per qualità naturali, tecniche e poetiche. La sua voce conserva omogeneità timbrica da un capo all’altro dell’ampia tessitura richiestale, e vede inusualmente convivere nel timbro il carnoso e l’impalpabile, il brunito e il luminoso, quasi fosse possibile riunire in un solo caso la memoria di Gundula Janowitz e Jessye Norman.

Ciò che commuove ancor maggiormente, la Harteros intona ogni testo senza traccia di enfasi o affettazione, con una naturalezza e una semplicità più rare di ogni sofisticatezza. È la voce di una donna che canta poesie. È tout court la voce della musica di Strauss. Quale giardino sinfonico sappia farle fiorire intorno Thielemann, è difficile a tradursi in parole. In tutta l’ampia area occupata dall’orchestra, la Staatskapelle pare una disseminazione di solisti, ciascuno dotato della propria trasparenza timbrica e del proprio slancio espressivo, ma tutti accomunati da una stessa ispirazione, vibrante e rosseggiante, fortemente permeata dalle suggestioni neoromantiche della natura e dell’autunno: l’assolo di corno che sigla September, o quello di violino che avvia alla conclusione Beim Schlafengehen, potrebbero essere assai più carichi di sentimento, e suonano invece come voci lontane, astratte, impassibili, non scaturite dall’animo umano ma atte a incorniciare il suo orizzonte e degne della sua contemplazione. Quella che, a partire dalla parziale inafferrabilità dei fenomeni naturali ai confini del giorno e della vita, può dare all’uomo una vaga idea di cosa sia l’infinito.

Un diverso indirizzo, spiccatamente narrativo e frizzante, ha caratterizzato il concerto del 13 e 20 aprile, affidato a Eschenbach e dedicato ai personaggi di Don Giovanni e di Don Chisciotte. L’uno è evocato nell’Ouverture del capolavoro di Mozart – presentata nella versione da concerto di Ferruccio Busoni, dove la conclusione in punta di piedi è ampliata e arricchita da una parafrasi strumentale del sestetto finale dell’opera – e nel poema sinfonico Don Juan op. 20 di Strauss. L’altro personaggio è evocato nell’altro omonimo poema sinfonico straussiano, Don Quixote op. 35. Con la direzione di Eschenbach, i conti della Staatskapelle con il repertorio mozartiano tornano a quadrare: non manca la maestà del suono, ma l’impasto non perde mai la flessibilità e la trasparenza; e finissima è la nuova analisi di un brano arcinoto, mediante una distribuzione di dinamiche sconosciuta alla tradizione. In Strauss, si imprime nella memoria soprattutto l’approccio al Don Quixote, dove il violoncello solista di Gautier Capuçon si muove nel contempo con piglio incisivo e ruvido e con timbro maschio e ambrato, e dove l’evocato volvere delle pale dei mulini a vento, con il suo far salire le vertigini all’uditorio, basta a dar conto della felice complicità tra podio e orchestra. Funzionale l’inserimento di un brano di Rihm a metà concerto (Verwandlung II) ed entusiasmante il bis nuovamente straussiano: con Eschenbach e la Staatskapelle, la Tanz der sieben Schleier da Salome suona insieme voluttuosa e tagliente, decorativa e psicologica, con una sferza ritmica e una radiosità dorata che la discografia più blasonata dovrà ora a invidiare.

Conclusione di questa breve rassegna non più nella cavea del Grosses Festspielhaus, ma nello zuccheroso auditorium del Mozarteum, dove le mattine del 15 e 21 aprile è stato servito un raffinato antipasto all’Arabella serale. In programma, il Sestetto per archi che apre il Capriccio di Strauss, il Quartetto per violino, viola, violoncello e pianoforte in Sol minore KV 478 di Mozart, Epilog per quintetto d’archi di Rihm e il Quintetto per oboe, clarinetto, corno, fagotto e pianoforte in Mi bemolle maggiore KV 452 ancora di Mozart; come bis, un assaggio dal Quintetto op. 16 di Ludwig van Beethoven, che mutua da quello mozartiano sia la tonalità d’impianto sia il singolare organico. Il concerto è un campionario del valore dei singoli professori della Staatskapelle, ora impegnati in veste di solisti: intonazione adamantina fino alle più scabrose arrampicate lungo il registro acuto, fraseggio forbito come le pitture su una porcellana di Meissen, curiosità e polilalia nell’approccio e nel passaggio da un repertorio all’altro. Un intruso di lusso: la tastiera spetta a Eschenbach, che su di essa fa valere il suo talento di accompagnatore al canto. E programma che procede in lieve china, dalla suprema introduzione straussiana alla gradita sorpresa beethoveniana; le composizioni mozartiane suonano invece come eccellenti compiti in classe, ma trascinano probabilmente più gli esecutori che l’uditorio, e il brano di Rihm finisce a far la parte del parente povero tra cotanto senno, scatenando gli schietti sbuffi e sghignazzi di una corpulenta Frau seduta in terza fila di platea (chi ricorda la fiaba dei vestiti nuovi dell’imperatore?). Un florilegio di umori per la mattina del giorno di festa.