Questa è Eliza, gaia fioraia

 di Luigi Raso

Meritato successo per My Fair Lady al Teatro di San Carlo: una scommessa vinta con una produzione che a una specializzazione degna dei templi del musical unisce la cura tipica delle migliori produzioni operistiche.

NAPOLI, 9 febbraio 2018 - Se il musical può considerarsi quale l’“opera americana”, My Fair Lady, libretto di Alan Jay Lerner e musica di Frederick Loewe, è uno dei capolavori del genere musicale made in USA, una rivisitazione di Pigmaglione di G.B. Shaw che, dopo il successo del musical (andato in scena a Broadway nel 1956), sarà riproposta (nel 1964) anche sul grande schermo con Audrey Hepburn e Rex Harrison; una trama accattivante, leggera e dall’ottimistico happy end tipicamente Star and Stripes style.

Le influenze della grande tradizione operistica, e di Puccini in particolare, sul musical americano sono molteplici; così come le differenze, ovviamente. Parlarne in questo articoletto appesantirebbe soltanto la lettura, ma si accenni soltanto una riflessione: il musical è sicuramente l’erede della tradizione lirica “popolare” dell’800-900 per un aspetto, l'aver saputo (e saper) mantenere vivo il dialogo tra compositore e grande pubblico, feeling che per opere contemporanee stenta a riproporsi.

In My fair Lady c’è una poetica delle piccole cose (i fiori, la birra, un po’ di fortuna), delle persone semplici, ma anche classismo, spocchia intellettuale (deriva pur sempre dal corrosivo G.B. Shaw, autore di quella definizione dell’opera lirica secondo la quale sarebbe “quella rappresentazione in cui il tenore cerca di portarsi a letto il soprano, ma c'è sempre un baritono che glielo vuole impedire”) e un pizzico di misoginia.

A Eliza, l’umile fioraia del mercato di Covent Garden, il destino riserva sorte ben più felice rispetto a quella toccata a Mimì, la più nota fioraia della lirica; Eliza deve far accorrere ai botteghini di Broadway numeroso pubblico e, soprattutto, tanti, tanti dollari: il musical è anche impresa e deve rendere. Il successo è misurato dal numero delle sere di repliche (i dollari, appunto), piuttosto che dall’elogio della critica (raramente coincidenti). My fair Lady nasce nel dopoguerra, al bando, quindi, fiori che “non hanno odore”, largo a quelli che consentono la luminosa scalata sociale ad Eliza.

Produrre al San Carlo, insieme con il Teatro Massimo di Palermo, un musical poteva apparire una scommessa, tanto stimolante quanto rischiosa: prova superata, e con risultati più che lusinghieri. Un esito complessivamente notevole e che si spera si ripeta con altri capolavori di questo genere musicale, “diverso” ma per nulla inferiore rispetto alla sorella "maggiore" opera. Infatti, lo spettacolo si apprezza per la rara raffinatezza, tanto curato in tutte le sue componenti essenziali, quanto armonico nella visione d'insieme, che risente nel suo “confezionamento” del lavoro certosino e artigianale proprio dell’opera lirica (o, almeno, di come dovrebbe essere sempre “costruita” l’opera) unito alle esigenze del più pop musical.

Paul Curran, regista scozzese, che al San Carlo ha firmato spettacoli ancora impressi nella memoria (uno tra i vari: l’elegiaco Königskinder di Humperdinck, nel 2002, vincitore del Premio Abbiati, con la direzione del compianto e indimenticabile Jeffrey Tate. Bei tempi per il San Carlo!), ambienta l’opera nella Londra edoardiana, negli ambienti, alto borghesi e proletari, nei quali si dipana la storia; una grande mappa di Londra campeggia sul sipario prima dell’inizio dello spettacolo, come a dire: la vicenda è tutta qui!

La regia ha il vantaggio di avvalersi di un’affiatata e dinamica compagnia di attori-cantanti che si producono con naturalezza in movimenti scenici agili, qualche gag, balletti e scene d’insieme. L’ottima distribuzione delle masse in scena fa rimpiangere ancor di più l’assenza del ballo all’ambasciata di Transilvania.

Il merito della bellezza e della unitarietà dello spettacolo è da dividere con le bellissime scene di Gary Mc Cann, perfette nel ricreare gli interni e esterni di una Londra aristocratica e proletaria, come l’affollato mercato di Covent Garden, l’esclusivo ippodromo di Ascot, l’interno della biblioteca (che evoca la celebre Holland House Library prima del bombardamento del 1940) al n. 27 dell’elegante Wimpole Street, non lontana da Regent’s Park, riprodotta con impressionante verosimiglianza. La scenografia è coadiuvata dall’uso sapiente e appropriato delle luci di David Martin Jacques che contribuiscono a imprimere un ritmo visivo allo spettacolo. Giusi Giustino firma i costumi e sono tra i più belli disegnati da questa artista per il San Carlo: un caleidoscopio di colori ed eleganza british, perfettamente innestati nello spettacolo e calzanti alle caratteristiche dei personaggi. Le coreografie di Kyle Lang, pur con il taglio del ballo all’ambasciata, sono vivaci e misurate come tutto lo spettacolo.

La parte musicale dello spettacolo è affidata alla direzione, leggera e cesellata nelle sfumature, di Donato Renzetti; il maestro abruzzese ha una conoscenza approfondita del musical, avendo diretto in passato Kiss Me Cate di Cole Porter a Torino, avendo suonato da giovane anche nei night club e, soprattutto, da ex percussionista della Scala, è perfetto conoscitore della forza propulsiva e vitalistica che è affidata alle percussioni in questo genere musicale, una ritmica mai esasperata, ma sempre a servizio e a rinforzo delle tante melodie di cui è disseminato il musical.

L’ottimo lavoro di concertazione è reso possibile dalla versatilità dell’orchestra sancarliana, che, anche mutando momentaneamente genere musicale, appare sempre affidabile, compatta e dal bel suono.

Sullo stesso livello qualitativo il coro del San Carlo diretto da Marco Faelli, il quale, pur non sfoggiando la perfetta idiomaticità londinese della compagnia di attori-cantanti, assolve egregiamente al compito assegnatogli, dal punto di vista sia scenico sia musicale.

Il lungo lavoro di casting madrelingua svolto a Londra (duemilaquattrocento candidati alle audizioni, trecento selezionati tra cui sono stati scelti gli interpreti) si avverte: difficile immaginare, se non a Broadway o nel West End londinese, una compagnia meglio assortita e maggiormente aderenta ai personaggi, affidati ad attori spigliati, simpatici (per tutti l’Alfred Doolittle di Martyn Ellis) e ottimi cantanti (ovviamente tutti microfonati: non storcano il naso i puristi, il musical è così.).

Forse la preponderanza dei recitati esalta maggiormente le qualità attoriali rispetto a quelle canore che comunque appaiono notevoli per l’Eliza Doolittle di Nancy Sullivan, dalla voce candida, ma all’occorrenza volitiva come il personaggio interpretato; autorevole e professionale l’Henry Higgins di Robert Hands, così come aristocratico e snob il Colonnello Pickering di John Conroy. Emana simpatia, per la pingue figura e per la “voce adiposa”, che ben allude agli effetti vocali dell’alcool, l’Alfred Doolittle interpretato da un applauditissimo Martyn Ellis. Completano il cast, tutti amalgamanti con il resto della compagnia e con la visione del direttore, l’innamorato sempre melenso Freddy di Dominic Tighe, dalla voce limpida e ben emessa, al quale è affidata la canzone più lirica del musical (“On the street where you live”), la autorevole madre del prof. Higgins interpretata da Julie Legrand e tutte le parti secondarie, con il loro significativo apporto alla riuscita dello spettacolo.

La storia si conclude: Eliza torna dallo sconsolato Henry Higgins e un simpatico e amorevole lancio di pantofole chiude con un sorriso la storia.

Grande successo per tutti da parte del pubblico, neppure in questa occasione accorso numeroso come la qualità dello spettacolo avrebbe meritato.

Non resta che sperare che la prossima Violetta (dal 27 febbraio) sappia attirare più pubblico al suo capezzale.

foto Francesco Squeglia