Operetta internazionale

 di Francesco Lora

Die Fledermaus di Strauss alla Scala e Die lustige Witwe di Lehár alla Fenice dominano il carnevale italiano e costituiscono esempi maiuscoli del nuovo corso del repertorio operettistico nei massimi teatri della penisola. Incantevole per equilibrio lo spettacolo lagunare con Michieletto e Montanari, onnipotente la concertazione milanese del giovane Cornelius Meister.

->Die Fledermaus

VENEZIA e MILANO, 4 e 11 febbraio 2018 – Qual è oggi la cittadinanza dell’operetta viennese nelle fondazioni liriche italiane? Il carnevale ha recato un paio di esempi maiuscoli, attraverso i due titoli-cardine in questo repertorio, nei due teatri peninsulari di più smaccato profilo internazionale: Die Fledermaus di Johann Strauss iunior al Teatro alla Scala (otto recite dal 19 gennaio all’11 febbraio) e Die lustige Witwe di Franz Lehár al Teatro La Fenice (cinque recite dal 2 al 13 febbraio). Si è trattato di due approcci complementari, alleati nel sancire, per diverse vie, l’archiviazione dell’operetta come la si è vista finora circolare ai più alti vertici della sua tradizionale modulazione peninsulare: un identikit di quest’ultima lo fornisce la cronologia stessa del teatro veneziano, ove il capolavoro di Lehár era passato l’ultima volta trent’anni fa, ma in versione ritmica italiana – La vedova allegra, dunque – e con mattatori nostrani, quantomeno per chiara militanza e adozione, quali Raina Kabaivanska, Armando Ariostini, Daniela Mazzucato, Max René Cosotti ed Elio Pandolfi, chi autoironicamente prestato al sottogenere, chi in grado di tradurne e adattarne il linguaggio.

Alla Fenice, oggi, è andata invece in scena una Lustige Witwe sorprendente sì per l’elegante fantasia di lettura musicale e teatrale, ma più ancora per un idiomatismo più germanico di quello reperibile in madrepatria. Nuovo è l’allestimento con regìa di Damiano Michieletto, scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti e coreografie di Chiara Vecchi: giusta la dipendenza dell’intreccio dal denaro dell’ereditiera, arguta risulta la trasposizione da un’ambasciata nell’età di Napoleone III a una filiale di banca sulla metà del Novecento. Nulla risulta violato, anche e soprattutto quando il quadro delle grisettes, in sé pretestuosetto, si muta in un frizzante, variopinto, consolatorio sogno erotico del Conte Danilo alticcio: chi non conosca il libretto originale giurerebbe che l’unica drammaturgia possibile sia quella qui simpaticamente riscritta. Follia scritturare come concertatore Stefano Montanari, specializzato nel repertorio strumentale settecentesco e affatto digiuno di operetta; follia non voler credere all’esito effettivo: orchestra e coro della Fenice, da lui diretti, sono sospinti come maliziose nuvole di cipria o fatti scoppiettare come bollicine di champagne.

Il lavoro con gli attori attinge il capolavoro presso una compagnia di canto poco vistosa nei nomi ed economica quanto a cachet, ma impressionante per sagace assortimento e notevoli qualità individuali. Nadja Mchantaf è soprano-utilité al Semperoper di Dresda e alla Komische Oper di Berlino, e in quelle sedi le sue doti sono passate inosservate anche allo scrivente; come Hanna Glawari a Venezia è al contrario così disinvolta sulla scena da lanciarsi in danze sfrenate e confondersi con i ballerini di professione, mentre nel canto fa ben capire quali siano le colonne d’Ercole in lei fissate dalla natura e dalla tecnica: la scrittura di Lehár, però, non gliele fa mai varcare, e le consente piuttosto lo sfoggio di una formidabile gamma di nuances. Fa con lei coppia perfetta il baritono Christoph Pohl, vocalmente ortodosso come nel Tannhäuser di un anno fa [leggi la recensione], ma convertito in un Danilo ruvido, spiccio e briccone. Depurata da ogni inutile buffoneria la seconda coppia, costituita dalla sorniona Valencienne di Adriana Ferfecka e dallo stilizzato Camille Rosillon di Konstantin Lee; comicamente sanguigno e impetuoso il cameo di Franz Hawlata come Mirko Zeta.

-> Die Fledermaus


 

MILANO, 11 febbraio 2018 - Per ciò che riguarda Die Fledermaus, a Milano è invece andato scena un adattamento della disinibita tradizione esecutiva austriaca, la quale apre il testo a reinvenzioni, licenze scherzose e interpolazioni, fino a una radicale riconcezione della drammaturgia. Regìa di Cornelius Obonya coadiuvato da Carolin Pienkos, scene e costumi di Heike Scheele, coreografie di Heinz Spörli: allestimento anche questo nuovo, anzi nuovissimo, ché la storia della Scala disdegna l’operetta, e un capolavoro super genera come Die Fledermaus non vi aveva ancora mai messo piede. Pure qui una trasposizione spazio-temporale, ma più incisiva e suscettibile di qualche interrogativo. L’arcisfavillante Vienna avviata alla finis Austriae diviene un odierno buen retiro tra Tirolo e Salisburghese, frequentato da straricchi avvezzi a risiedere nel mondo intero e a parlare una confusa babele linguistica: come davvero avviene in quei contesti, i dialoghi tedeschi sono dunque pasticciati in un disinvolto frullato di tedesco e italiano, speziato di francese e inglese; ma al momento di tirare le somme, incoerente è che pari disinvoltura abbiano in ciò anche i personaggi del luogo e di non pari censo.

La compagnia riflette quanto detto, assortendo cantanti di lingua madre perlopiù tedesca o italiana, capaci di praticare ambo gli idiomi. Piace la Rosalinde di Eva Mei, che nei panni della padrona fa valere con tanta aura quanta autoironia l’esperienza da primadonna virtuosa. Piace l’Adele di Daniela Fally, persin più esposta nel canto di bravura ma – ruolo di serva – declinata con franca comunicativa popolare. Piace il Dr. Falke di Markus Werba, ove il personaggio messo a punto, l’attore spigliato e il cantante scaltrito gareggiano per potere di seduzione. Piace l’Alfred di Giorgio Berrugi, che insistendo nel ritratto stereotipico del tenore rivela nel contempo l’intelligente bonarietà dell’interprete. Piace il Principe Orlofsky di Elena Maximova, pomposa ed enfatica anche perché il personaggio è qui ribaltato, al femminile, in oligarca russa. Spinge alla venerazione il Cornelius Meister che ha sostituito Zubin Mehta convalescente: fa respirare come nessun altro ogni angolo della partitura, fa splendere la seta dell’orchestra scaligera in invidia ai Wiener, è il direttore tedesco di più onnipotente poetica e tecnica tra gli under 40; guai a chi non se ne voglia accorgere.

foto Brescia Amisano