veronica simeoni

Musica sopra la tradizione

 di Francesco Lora

Un polveroso allestimento scenico è la palla al piede della Favorite al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. Al di sopra del problema si è posta tuttavia l’esperta concertazione di Fabio Luisi. Speciale attenzione su un paio di varianti nella compagnia di canto, all’ultima recita: il tenore Anton Rositskiy e il baritono Vito Priante.

FIRENZE, 3 marzo 2018 – Una lettura registica non tradizionale e male accolta scatena facilmente il putiferio su tutta la sua categoria. Se vi fosse equità, non dovrebbe allora passare indenne nemmeno La favorite di Donizetti come allestita al Gran Teatre del Liceu di Barcellona nel 2002 e ripresa, con lustri di polvere, dal 22 febbraio al 3 marzo scorsi al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino: regìa di Ariel García Valdés, così tradizionale da prevenire e diminuire le didascalie stesse; scene e costumi di Jean-Pierre Vergier, legati in modo oleografico e miserabile a una provincia estinta; nessuna coreografia, ché i venti minuti di balletti sono tagliati di netto. Rimane la straniante esperienza di un modesto modernariato teatrale, utile soprattutto all’esercizio del sarcasmo melomaniaco ovvero dell’autoironia. Non così si dà il colpo d’ala drammaturgico e iconografico al discorso musicale di questo grand opéra, ridicolizzato per un secolo e mezzo nella sua versione ritmica italiana e ora ricollocato nel superbo originale francese (questione non solo di idioma, ma anche di ampi ripristini, nell’assetto testuale come nella logica teatrale). Al di sopra del problema si è posta tuttavia l’esperta concertazione di Fabio Luisi: esorcizzata la genia di battisolfa che tengono abitualmente in ostaggio la letteratura donizettiana, ecco lo srotolarsi smagliante della grandiosa strumentazione messa a punto per l’Opéra di Parigi, ecco il ritmo teatrale che sferza da dentro senza togliere il flusso musicale all’eleganza della misura, ecco le tessere motiviche lavorate una per una fino a rivelare la più eletta forbitezza melodica, ecco Orchestra e Coro del MMF con l’acciaio di Zubin Mehta ma rieducati alla cantabilità italiana.

L’ultima della quattro recite ha recato un paio di varianti nella compagnia di canto. La parte di Fernand è passata da Celso Albelo ad Anton Rositskiy, lo stesso sfrontato (e adorabile) tenore russo che nella Margherita d’Anjou di Martina Franca volava al Fa sopracuto [leggi la recensione]; qualche suono scappa incontrollato, il timbro è neutro, il fraseggio non brilla d’ispirazione: ma da lui viene un raro paradigma circa la vocalità tenorile francese, come aggiornata a metà Ottocento sull’eredità storica dello haute-contre. La parte di Alphonse XI è passata, a sua volta, da Mattia Olivieri a Vito Priante, già parafulmine di lodi nelle recite del 2016 al Teatro La Fenice [leggi la recensione] e oggi ancor più motivato da una più autorevole direzione. Pure l’attuale primadonna, Veronica Simeoni, aveva già preso parte allo spettacolo veneziano come Léonor: la non-regìa catalano-fiorentina le preclude l’atteso approfondimento del personaggio, che soffre viepiù il confronto con la semina di Sonia Ganassi e Daniela Barcellona; né l’impegno è strenuo come piacerebbe: il tramezzo tra la cabaletta «Mon arrêt descend du ciel» e la sua ripresa, per esempio, è pigramente lasciato alla sola orchestra anziché essere debitamente cantato; ma si apprezza la ricerca di una più ombreggiata sostanza mediosopranile, a connotare una vocalità non baciata da timbro e smalto inconfondibili. Non ieratico, il Balthazar di Ugo Guagliardo sfoggia però ampio spettro di armonici e una signorilità non comune tra i bassi in questo repertorio. Per rifinitezza di canto e sottigliezza attoriale, incantano due giovanissimi: il soprano Francesca Longari come Inès e il tenore Manuel Amati come Don Gaspar.

foto Terra Project/ Contrasto