Il labirinto delle libertà

 di Roberta Pedrotti

Un ben riuscito allestimento del capolavoro di Poulenc risolleva, pur in assenza di richiami divistici o di scelte sceniche eclatanti, il nodo insoluto e insolubile dell'ambiguità di fondo dei Dialogues des Carmélites.

BOLOGNA, 13 marzo 2018 - Dal primo passo, nel 1790, con la Costituzione civile del clero, nel giro di soli quattro anni la Francia rivoluzionaria abolisce gli ordini religiosi e requisisce i loro beni. Fra chi si oppone, sedici carmelitane di Compiègne che saliranno come beate all'onore degli altari passando attraverso la ghigliottina azionata dal leggendario Sanson. Un episodio esemplare per chi crede, ma, di per sé, a rischio di esaurire ben presto il suo interesse nella traduzione per il teatro musicale, se non fosse il testo che Georges Bernanos trae dal romanzo L'ultima al patibolo di Gertrud von Le Fort come un gioco inesauribile d'incastri e scatole cinesi sul tema della libertà, della volontà, della fede. Tema che non poteva non toccare la scrittrice di origini ugonotte, convertita al cattolicesimo e folgorata dall'incontro con Edith Stein; non il drammaturgo animato da fede cupa e profonda che aveva abiurato le giovanili esperienze nella destra nazionalista per appoggiare apertamente la resistenza al nazifascismo. Non poteva lasciare indifferente nemmeno Francis Poulenc, che fra la satira surreale sui cliché di genere con Les Mamelles de Tirésias (1947, ma immaginiamo ancora nel 2018 possibili devoti turbamenti di fronte alla vicenda di due sposi che, letteralmente, si scambiano di sesso) e il dramma dell'abbandono nella Voix humaine (1959), dà voce e canto alle martiri carmelitane, cui infonde il suo intimo tormento di credente approdato alla fede dopo il trauma della morte – decapitato, per fatale coincidenza, in un incidente stradale – dell'amico Pierre-Octave Ferraud. Il rifugio nella spiritualità cattolica è, però, fonte di sentimenti controversi e per l'omosessualità del compositore, e per il suo spirito garbatissimo, timido, ironico e sagace.

Ecco allora che il Carmelo assediato dalla rivoluzione appare come il labirinto della stessa spiritualità di Poulenc, un gioco di scatole cinesi in cui il sacrificio e la fuga, la paura e l'ardimento, il dubbio e la fede incrollabile, i fanatismi d'ogni sorta s'intrecciano indissolubilmnente. La fresca spontaneità di Soeur Constance, d'una gioiosità francescana, svela una profondità quasi mistica e veggente ed è il perfetto contraltare della seriosità con cui Blanche fa masochistico scudo alla propria agorafobia e alla propria ondivaga fragilità. La forza ma anche le contraddizioni della nuova Priora Mme Lidoine e di Mère Marie de l'Incarnation, quest'ultima ispiratrice del voto di martirio e destinata tuttavia a sopravvivere per custodirne la memoria, tenendo così anch'ella fede al significato etimologico del termine (dal greco μαρτυρέω, testimonio); la tragicità della vecchia Priora Mme de Croissy, che morendo avverte la solitudine dell'assenza di quel Dio cui aveva dedicato l'intera esistenza. Ogni personaggio è il tassello di un unico mosaico, l'elemento indispensabile di un unico organismo, un cono d'ombra o un raggio di luce in un labirinto di scatole cinesi che va molto oltre la rievocazione storica di un episodio della “scristianizzazione” della Francia rivoluzionaria. Dialogues des Carmélites racconta più e altro che la resistenza di un gruppo di religiose rispetto a un nuovo mondo emergente e avverso: racconta il dramma della scelta, della fedeltà a un ideale, del dubbio, della resa, in un'atmosfera impalpabile, insieme sincera e inesorabilmente ambigua.

Così lo mostra, infatti, anche il regista Olivier Py nel bell'allestimento coprodotto dalla Monnaie di Bruxelles e dal Théâtre des Champs-Élysées di Parigi: una scatola di legno scuro che muta, lascia intravedere spazi aperti di foreste spoglie o meccanismi teatrali, scorre come un corridoio dalla prospettiva profondissima, vertiginosa, ci fa guardare dall'alto l'agonia della vecchia priora, immerge il Salve Regina finale in un cielo stellato. Nessuna ghigliottina per queste Carmelitane, anche l'orchestra dà colpi di lama più simbolici che violenti, mentre chi pare crollare decapitata, chi si accascia languente, chi come colpita al ventre. Mille morti, un'unica morte in un'unica voce a chiudere un'unica esistenza rifranta di diverse esperienze tutte, scandite da rassicuranti, iterate ritualità, come la scritta LIBERTÉ tracciata con il gesso sulle pareti che si chiosa monasticamente EN DIEU, come l'evocazione a tableau vivant della Natività, dell'Ultima cena, della Crocifissione. L'identificazione ribadita con la narrazione evangelica è collante identitario e quasi ossessivo per le Carmelitane, perfino nelle sue forme popolari o vagamente infantili. Il gioco, sempre presente nell'anima di Poulenc e rappresentato dalla voce profetica di Soeur Constance, può essere una fatale perdita di sé e contribuire all'esaltazione del sacrificio. Giova senza dubbio a questa visione l'affiatamento di una compagnia di canto in cui non mancano nomi di spicco nel panorama musicale francofono ma in cui, parimenti, non si ricerca il cameo straordinario della grande diva crepuscolare prestata al priorato (con risultati magari eccelsi, ma anche con il rischio di sbilanciare l'assieme). Sylvie Brunet incarna con febbrile immedesimazione Mme De Croissy, Sophie Koch è una Mère Marie di classe, così come Marie-Adelie Henry nel raccogliere la pesante – forse troppo in tal tragico frangente – eredità della Croissy. Sandrine Piau presta la dolce luminosità del suo canto a una Soeur Constance più intrigante che zuccherosa ed Hélène Guilmette mette ben a fuoco il carattere sfuggente di Blanche, il suo misticismo finalizzato all'autoannullamento, in una dissoluzione protettrice in un nido, foss'anche l'avito palazzo semidistrutto e saccheggiato dopo l'esproprio del Carmelo.

Nicolas Cavallier è un Marquis de la Force di comprovata esperienza, così come i più giovani Stanislas de Barbeyrac (Chevalier de la Force), e Loïc Félix (il cappellano del Carmelo). Adeguati negli altri episodici ruoli maschili Matthieu Lécroart, Jéremie Duffau, Arnaud Richard. Bene anche la Mère Jeanne di Sarah Jouffroy e la Soeur Mathilde di Lucie Roche, ciascuna elemento terreno di una costellazione spirituale – non necessariamente religiosa – che vediamo risplendere nel finale.

Li sostiene dal podio Jérémie Rhorer, che cerca e trova una drammaticità non violenta ma proprio per questo particolarmente intensa nello spessore del suono, in un cromatismo brumoso, come una nube grigia che nelle sue varie sfumature fa scintillare bagliori di speranza o dolcezza, rifrangere iridi di libertà in un mondo altrimenti cupo, claustrofobico, manicheo. Alla seconda recita, cui abbiamo assistito, l'atmosfera prende corpo grazie anche alla prova ben concentrata dell'Orchestra, cui, dopo la Voix Humaine della scorsa primavera, parrebbe proprio che Poulenc si addica.

Il buon successo  tributato da un pubblico non esiguo in una normale serata d'abbonamento, senza particolari attrattive glamour, fa ancor più piacere per il debutto felsineo di un'opera che nacque una sessantina d'anni fa alla Scala con un cast stellare in cui si ricorda anche una grande voce bolognese, quella di Gigliola Frazzoni come prima Mère Marie de l'Incarnation.

foto Rocco Casaluci