Celesti lontananze

 di Alberto Ponti

Si apre all’insegna di un buon successo di pubblico la serie di recite del capolavoro monteverdiano per la prima volta al Teatro Regio

TORINO, 13 marzo 2018 -Nella sua acuta opera storiografica sul colonialismo italiano Angelo Del Boca, tracciando un parallelo tra i Governatori della Tripolitania (in seguito inglobata nella Libia tout court) negli anni ’20 e ’30 del Novecento, confronta lo stile di vita principesco e ricercato proprio di Giuseppe Volpi e Italo Balbo con la frugalità soldatesca di Pietro Badoglio. Questione di carattere e di formazione, si dirà, a cui non fu tuttavia estraneo il fatto (bisogna rendere merito all’autore per l’originalità dell’osservazione) che i primi due fossero venuti al mondo e cresciuti tra gli splendori artistici rispettivamente di Venezia e Ferrara mentre il terzo avesse aperto gli occhi in quel di Grazzano Monferrato.

Ora, il passaggio dalla corte ducale della secentesca Mantova dove l’Orfeo di Claudio Monteverdi ebbe il suo battesimo nello spirito del puro divertimento aristocratico all’odierna Torino in periodo, per fortuna dei più, di Repubblica Italiana non può che essere altrettanto brusco. A prescindere dalle raffinatezze rinascimentali, che in Piemonte mancarono del tutto, a essere mutato, rispetto a quattro secoli fa, è il pubblico, sotto le Alpi come altrove.

Dell’Ottocento lirico siamo tutti figli nel gusto e gli accenti di Verdi o di Bellini trovano ancora oggi corrispondenze immediate, provocando sussulti e all’occasione qualche lacrimuccia sincera. E se fra le ciprie del Settecento, con un po’ di impegno e l’aiuto di geni come Haendel e Mozart, si può intravedere la luce destinata a squarciare le tenebre depositate dal tempo, assai più arduo è provare a penetrare nell’animo degli uomini per cui Orfeo ebbe la sua prima rappresentazione nel 1607.

Impresa di valore culturale altissimo è quella compiuta da Antonio Florio che, sul podio dell’orchestra del Teatro Regio affiancata per l’occasione da strumentisti della Cappella Neapolitana e dall’ensemble La Pifarescha, affronta con coraggiosa fiducia questa pietra miliare della drammaturgia musicale, basandosi sulla recente edizione critica di Rinaldo Alessandrini. La sua direzione appare curata nei particolari, cesellata con serenità fin dalla Toccata d’apertura con l’eloquio solenne e pacato degli ottoni a introdurre, traendo spunto dalla parabola del mitico eroe capace di commuovere col canto e del suo amore per Euridice, la prima vera vicenda con una precisa psicologia dei personaggi nella storia dell’opera.

In siffatta prova più che il singolo va valutato l’insieme, forte di una lettura molto convincente nonostante la lontananza dall’orecchio odierno del recitar cantando. Se l’estrema, e figlia di molti padri, Incoronazione di Poppea sarà già rivolta al futuro, Monteverdi nell’Orfeo guarda ancora agli archetipi fiorentini, pur liberando a tratti visionarie profezie sulla musica che verrà: gli intrecci polifonici dei cori degli spiriti in chiusura del terzo atto ‘Nulla impresa per huom si tenta invano’ e per tutto il successivo (‘Pietade oggi è amore’, ‘E’ la virtute un raggio’), superbamente resi dai complessi torinesi guidati da Andrea Secchi, fanno pensare già a Bach per pregnanza drammatica e profondità di concezione.

Un’Arcadia ricreata con tocco chic e contemporaneo, facendosi perdonare qualche lampo di stravaganza in figure di secondo piano, è evocata dai bei costumi di Carla Ricotti, in grado di rendere convincente la presenza scenica dei protagonisti. Il soprano Roberta Invernizzi, voce flautata sensibile e duttile, ha conquistato la platea della première dal prologo (l’apparizione della Musica in persona introduce l’argomento), confermando l’ottima impressione anche nella Proserpina interpretata nel prosieguo.

Più uniforme e ruvido nel timbro, con un tono incentrato costantemente sul forte, meno attento alle sfumature richieste dalla sua estesa parte, il baritono Mauro Borgioni (Orfeo) dimostra buona tenuta drammatica nella grande aria ‘Possente spirito e formidabil nume’ così come nella canzone ‘Qual honor di te sia degno’. Applausi convinti riscuotono l’Euridice di Francesca Boncompagni (soprano) nonché Caronte e Plutone, impersonati dai bassi Luigi De Donato e Luca Tittoto.

Il tenore Fernando Guimarães, subito in scena come primo pastore, è sembrato più a disagio nell’Apollo del quinto e ultimo atto, con un canto di particolare esilità che, per il contrasto esagerato tra i registri, conduce a un grottesco, involontario comico nel duetto con lo stentoreo protagonista.

Il gradimento concorde del pubblico, attento per tutta la serata e generoso nelle ovazioni, è comunque suggellato dall’impegno di tutto il resto della compagnia del cast, dalla Messaggera di Monica Bacelli (mezzosoprano) alla Ninfa di Leslie Visco (soprano), da Joshua Sanders e Luca Cervoni (Eco e primo spirito, tenori) ai pastori di Marta Fumagalli e Davide Motta Fré (mezzosoprano e basso).

Senza stravolgere le indicazioni del libretto di Alessandro Striglio, la scenografia e la regia di Alessio Pizzech, attente a ricreare con pochi tocchi la magia della favola antica, conferiscono valore aggiunto allo spettacolo. Un semplice piano inclinato col motivo geometrico di un pavimento rinascimentale è chiuso ad angolo retto da una quinta mobile ispirata agli elaborati intarsi di soffitti principeschi. Tra queste due dimensioni, reali e immaginarie a un tempo, immerse in un’atmosfera di sogno grazie alle luci curate da Andrea Anfossi (spesso indugianti, nonostante la discesa agli inferi di Orfeo, su toni di eccessiva cupezza nel secondo, terzo e quarto atto), si compie l’abbraccio tra virtù celeste e piacere terreno che, incessante nei secoli, continua ad interrogare e affascinare gli uomini.

foto Ramella Giannese