Un peu tragicomique

 di Giuseppe Guggino

 Fra Diavolo, l’opéra-comique più celebre di Auber approda sulle scene del Teatro Massimo di Palermo con esiti alquanto deludenti a causa di una concertazione poco attenta ad assecondare i solisti ed uno spettacolo dalla cifra estetica troppo eterogenea. Il pubblico sembra gradire poco.

Leggi la recensione di Stefano Ceccarelli della stasse produzione data a Roma con cast differente ( 17/10/2017)

Palermo, 21 marzo 2018 - Chissà se per raffinato disegno di programmazione o se per semplice casualità, i primi tre titoli d’opera della stagione del Teatro Massimo di Palermo offrono uno spaccato dei tre generi in voga nella Parigi anni ’30 dell’ottocento. Spiace dover rilevare però che anche questo secondo pannello, dedicato all’opéra-comique è affetto da un travisamento di genere; s’era voluto con l’inaugurazione tentare la strada del grand-opéra privato di tutti (o quasi) i ballabili e abbondantemente scorciato nelle proporzioni di insieme, si cerca adesso di fare l’opéra-comique senza i dialoghi. Che poi nel caso del Fra Diavolo di Daniel-Françoise-Esprit Auber l’operazione potrebbe risultare plausibile, per l’esistenza di una versione italiana con i recitativi musicati dallo stesso compositore (proposta a Londra una quindicina d’anni dopo la prima assoluta), ma a che pro incaponirsi a volerla ritrasporre (ad opera di Renè de Ceccatty) oggi all’inverso in francese? Specie se poi i numeri, a parte l’interpolazione del trio di banditi nel primo atto (No. 4bis) e della sortita del viaggiatore Cockburn (No. 1bis), sono sostanzialmente quelli della prima del 1830, escludendo quindi l’aria “Or son sola/alfin respiro”, scritta proprio per la versione con i recitativi musicati.

Né questo è il solo aspetto controverso dell’operazione, giacché oltre a tradire la forma, la scelta della bacchetta di Jonathan Stockhammer collide con l’essenza stessa dell’opéra-comique che risiede nell’esattezza e nella leggerezza di una musica gracile nelle sue oscillazioni tra il marziale caricaturale e il languido, eppure così irresistibilmente adorabile. E invece, lungi dal saper imprimere il necessario stacco ad una drammaturgia che necessita di fantasia nella concertazione, brusche svolte agogiche e di continua ricerca di “effetti”, si deve registrare nuovamente il ripiombare dei complessi di casa, dopo appena un paio di prove convincenti in sede di concerto, nel suono paludato senza né brio né precisione. L’incapacità di coordinare buca e scena, se non dopo almeno venti minuti buoni di scollamenti nel primo atto, fa poi allungare l’ombra del tragicomique sul comique, per dirla in francese. Inutile cercare di cogliere il gioco di rimandi, di refrains, di citazioni che fa del lavoro di Auber – e non a torto – uno dei titoli più riusciti e rappresentativi del genere. Ed è un peccato, perché la compagnia di canto avrebbe meritato un contesto migliore.

Antonino Siragusa sa aggiungersi con onore alla schiera di tenori belcantisti, dopo i precedenti di La Scola, Raffanti, Sabbatini e Osborn a volersi misurare col fascinoso bandito eponimo, forte di un’amministrazione vocale ben assestata che gli consente camaleonticamente virate dalle mezzevoci della barcarolle del secondo atto all’impegnativa aria del terzo, lievemente sporcata da qualche rigidezza di emissione. Di pari valore è la coppia british formata dalla Milady di Chiara Amarù e dal Milord di Marco Filippo Romano che spiccano negli insiemi e gareggiano nei couplets a due, la prima perfettamente a proprio agio nelle continue agilità del ruolo, il secondo per saldezza di tutta la gamma.

Alla coppia di amorosi Zerline e Lorenzo, ossia Désirée Rancatore e Giorgio Misseri, competono le puntature e i momenti patetici della serata. Il soprano palermitano vena di malinconia la verve scenica che tutti le riconoscono, mentre proprio affannosamente disperate sembrano farsi le cose nel terzo atto quando Lorenzo, in versione carabiniere in disarmo, scala il pentagramma credendosi tradito dalla sua amata.

A completare il cast è il sonoro Mathéo di Francesco Vultaggio e la coppia di banditi Giacomo e Beppo impersonata da Paolo Orecchia e Giorgio Trucco.

Sullo spettacolo di Giorgio Barberio Corsetti di cui si è ampiamente scritto per il ricorso alla scenografia frutto dell’assemblaggio di tanti moduli prodotti da stampanti 3D – se il risultato è quello visto – non rimane che invocare il rapido ritorno al vecchio compensato calandrato a mano nei reparti di falegnameria. Le scene, concepite assieme a Massimo Troncanetti, consistono in un esterno (per il primo e terzo atto) i cui due blocchi a prospetto “curvo”, ruotati, disegnano funzionalmente l’auberge – un po’ casa di bambole – del secondo atto. Ma non basta l’evocazione dell’Italia anni ’50 strizzando l’occhio al cinema neorealista solamente attraverso i riusciti costumi di Francesco Esposito, perché poco si amalgama stilisticamente il tutto con le proiezioni vignettistiche dovute ad un nutrito team di videomakers e soprattutto perché la gestione delle masse, ben che vada, è irrisolta, quandanche – complici le coreografie di Roberto Zappalà, specialmente al terzo atto – irrimediabilmente incline al comique-involontaire.

Del gioco teatrale poco riuscito, nonostante qualche buon ingrediente nel cast, si accorge inevitabilmente il pubblico, non numeroso sin dall’inizio della serata, che lascia scivolare senza applausi a scena aperta moltissimi numeri (persino l’ouverture!), per poi abbandonare la sala durante le uscite finali con un’aria molto poco divertita: un peu tragique pour un opéra-comique.

foto Franco Lannino e Rosellina Garbo