L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

To[DE]sca

 di Francesco Lora

Al Festival di Pasqua di Salisburgo è il turno di Puccini e di Tosca. Alla testa della Staatskapelle di Dresda – al di sopra d’ogni lode – Christian Thielemann dà una concertazione inedita e forbita. Le corrette risorse del teatro d’opera italiano sono però fraintese dalla compagnia di canto, e soprattutto nei suoi nomi di maggior risalto: Anja Harteros e Ludovic Tézier.

SALISBURGO, 2 aprile 2018 – Stabile lo schema del Festival di Pasqua di Salisburgo: al centro, il giovedì santo, è collocato un concerto fuori abbonamento dedicato in primo luogo alla città; da lì, simmetricamente, si diramano due cicli in abbonamento formati ciascuno da un concerto corale, due concerti sinfonici e un concerto da camera, fino a coprire la settimana santa dalla domenica delle palme a quella di Pasqua; agli estremi, ossia il sabato “di Lazzaro” e il lunedì dell’angelo, come inaugurazione e conclusione della rassegna, sta l’appuntamento più caratterizzante: l’allestimento di un’opera in forma scenica. A dispetto della prevalenza storica di titoli wagneriani, verdiani e straussiani, quest’anno è tornato il turno di Puccini e di Tosca: 24 marzo e 2 aprile, pubblico che conta (con una cospicua percentuale italiana) e locandina che costa (ma senza i grandi interpreti nostrani).

Dopo aver assistito alla “prima” dello spettacolo operistico, i più zelanti amici austriaci e bavaresi avevano prevenuto lo scrivente: ascolterai una cosa che più tedesca non si può, una “tedescata”, e potrai confermarcelo tu che sei italiano. Con riferimento a un solo colpevole: il concertatore Christian Thielemann. Ed ecco accendersi in treno il fantasioso pregiudizio del critico, memore di quella prefazione del 1882 a Giambi ed epodi ove Giosue (senza accento) Carducci, alludendo all’amore per il chiasso degli strumenti in orchestra, sentenzia: «e, più sonan forte, più mi piace: sono tedesco»; o memore del vernacolo Sonetto per la ricuperata salute del nobil signore Andrea Erizzo principe dell’Impero austriaco, ove un Pietro Buratti del 1818 si sofferma su quei signori dell’uditorio che, «... guastai da Rossini, | no i vol sentir la musica todesca, | dove in fondo el so megio anca lu pesca».

Invece no. La direzione di Thielemann restituisce una Tosca tagliente, analitica, sommessa, osservata come sotto un fascio di luce fredda per evidenziarvi le arditezze nel moto delle parti e nella ricerca armonica; spicca di gran lunga il discorso sinfonico, e la sola drammaturgia resta quella in partitura; è un Puccini severo, scabro, timido a tratti, mai sensuale, restìo alla voluttà del rubato e all’affastellarsi dei colori, pago tuttavia della seta iridescente e delle spruzzate di polvere d’oro che salgono spontaneamente dalla Staatskapelle di Dresda: forse l’orchestra che al mondo è la più preziosa nei timbri, la più versatile nei repertori e la più equilibrata nelle sezioni. La tedescata non è nemmeno nei favolosi boati orchestrali del Te Deum, celebrato con uno sfarzo di suono degno di Karajan, là dove del resto il compositore sta ritraendo i rituali spari d’artiglieria sopra il canto dell’inno.

La taccia di germanismo stilistico s’insinua piuttosto in un aspetto nemmeno preso in considerazione dagli amici d’oltralpe: la formazione di una compagnia di canto affatto estranea ai tratti idiomatici di Puccini e del teatro d’opera italiano, e il mancato intervento di Thielemann – italiano d’adozione, in giovinezza – a educarla anziché a lasciarla correre. Ha così luogo un dialogo improbabile tra una concertazione inedita e forbita, e cantanti di compiaciuta inadeguatezza. Quest’ultima è esasperata da un paradosso: la sostituzione del parlato, del singulto e del rantolo al canto, con pronunzia spesso censurabile e gesto iperrealistico a sopraffare il lavoro sulla parola, sembra convincere i cantanti di attuare in tal modo l’autentico spirito italiano come frainteso in area germanofona; la mamma, il mandolino e la pizza attendono dietro l’angolo, e la mafia figurerà nella regìa.

L’esibizione di questa passionalità da cartolina nuoce ad Anja Harteros nella parte protagonistica. Il fascino del timbro e la salute dello smalto – indubbi – passano presto in second’ordine rispetto al disagio nel modulare canto e accento sulle necessità espressive, e la superficialità di un’esibizione sopra le righe stanca altrettanto presto – già verso la fine dell’atto I – una voce di bel calibro lirico sfogata come da drammatico. In un unico luogo Thielemann ferma il flusso dell’opera, e ciò avviene dopo «Vissi d’arte» (nondimeno salve sono le successive battute «Risolvi! – Mi vuoi supplice ai tuoi piedi!», altrove sempre tagliate); bene: la romanza, già malandata alla prima recita, alla seconda è dalla Harteros prima sbagliata nell’attacco, quindi conclusa stonando oltre ogni imbarazzo e tolleranza; ma sulla diva piovono ovazioni: non è venuta meno alla prova di presunta italianità.

Nel tornare alla parte del Barone Scarpia, Ludovic Tézier lascia delusi e interdetti: rimane opaco e fiacco sul versante canoro (singolari la povertà di colori e la perdita di risonanza), nonché distratto e monotono su quello scenico (troppe amnesie, antagonista risolto nella sola volgarità). Dopo una prima recita sostenuta da Aleksandrs Antoņenko all’insegna di bieco malgusto, alla seconda si annuncia la sostituzione del suo Mario Cavaradossi con quello di Hector Sandoval: tenore, quest’ultimo, di modeste risorse naturali e tecniche, funzionale al mero salvataggio della rappresentazione. Nell’atto I, già lo scambio di battute con Cesare Angelotti lo mette in pericolo, ché il basso del caso, un lussuosissimo Andrea Mastroni, ha portata addirittura organistica, e pare divorarsi il coprotagonista con la stessa tremenda incombenza di un Filippo II posto innanzi al Conte di Lerma.

Dall’altro italiano, Matteo Peirone, si era in diritto di attendere un Sagrestano senza obsoleti birignao. Tra gli altri comprimarii, il Pastore del piccolo Benjamin Aster commuove per musicalità e naturalezza. Nella regìa di Michael Sturminger e nelle scene e costumi di Renate Martin e Andreas Donhauser, infine, l’azione diviene regolamento di conti in una malavita romana di fantasia: Scarpia che sopravvive alle pugnalate e ricompare nel finale, per uccidersi a vicenda in una sparatoria con Tosca, è l’idea meno cattiva entro una lettura che vorrebbe stravolgere il libretto ma, più spesso, vi si attacca in modo letterale per mancanza di geniale alternativa; in tal senso, si possono lì anche applaudire le più grevi riproduzioni mai viste di S. Andrea della Valle, di Palazzo Farnese e del cupolone di S. Pietro. Ritorno di Wagner al prossimo Festival di Pasqua: Die Meistersinger von Nürnberg.

foto OFS Forster


 

 

 
 
 

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