I due volti di Eva

 di Antonino Trotta

I riflettori di Broadway illuminano il palcoscenico del Teatro Regio di Torino: tra arrivismo e filantropia, la storia di Eva Perón raccontata da Tim Rice e Andrew Lloyd Webber commuove il pubblico in una serata che ha il profumo dell’evento.

Torino, 9 Maggio 2018 – È quasi un segno della divina provvidenza, per chi sottostà alla casualità con animo romantico, l’arrivo a Torino di Evita. Provvidenziale su più fronti perché, in un momento di minacciosa inconsistenza politica e all’alba di un’oppugnabile riorganizzazione del Teatro Regio che solleva non poche perplessità, il commovente musical di Tim Rice e Andrew Lloyd Webber non perde l’occasione per invitare lo spettatore attento – e si spera chi di dovere – a una riflessione su uno spaccato di socialità, seppur letteralmente lontano nello spazio e nel tempo, da cui converrebbe non prendere troppo le distanze. E lo fa attraverso un linguaggio musicale fruibile, arguto, a volte intriso di pungente cinismo ma sempre ricco di sfumature e appassionante nella presa sul pubblico, giovanissimo e numerosissimo.

La determinazione è femmina ed Eva Perón ne è lampante dimostrazione. Descamisada prima, first lady poi, nel giro di cinque anni la «donna del popolo che sposò la causa del popolo» è diventata il cordone ombelicale tra le masse e il potere. Protagonista di un’apoteosi che fa leva su un processo mediatico squisitamente strutturato, Evita intuisce con largo anticipo sui tempi le smisurate potenzialità dei canali di informazioni e se ne serve per consolidare l’immagine pubblica e spettacolarizzare la propria vita diventando l’autentica guida spirituale di una paese lacerato da profonde divisioni, scioperi, frodi elettorali e corruzione. Una realtà, in parte, familiare a chi legge. Magnetismo e carisma incoronarono il mito con l’aureola di una santa («Spes nostra», «Salve Regina (Perón)» sono solo alcuni frammenti del musical che testimoniano l’aura mistica dell’eroina argentina) e i gioielli di una regina. Nell’arco di un lungo flash-back che ripercorre cronologicamente le tappe salienti della breve vita di Maria Eva Duarte si insegue la trasformazione del personaggio da “privato” a “pubblico” senza glissare sulle sfaccettature più torbide di questa controversa figura. La divinità scesa in terra eclissa la terribile consapevolezza di impotenza («Meglio fare quel che si può per pochi piuttosto che mentire.» o ancora «chi sarebbe contento di vedermi affrontare i problemi più gravi del mondo […] senza la speranza di trovare una soluzione nemmeno se avessi cent’anni?») e uno smanioso anelito di potere che sfama l’ingordo arrivismo. Nonostante la concretezza di alcune riforme, la «Mater Misericordiae» rimane ben presto vittima della demagogia e della politica delle frasi a effetto: fondazioni filantropiche gestite in maniera più o meno capricciosa, tagli agli stipendi e redditi di cittadinanza (ah no, questi non sono frutti del peronismo...), copiose donazioni elargite senza il supporto di un’efficace e concreto programma politico. Non si assiste dunque a una cieca celebrazione, bensì a costruttivo dibattito con il “Che”, voce fuori dal coro e ancor più fuori dalle masse. Contraltare di Eva nell’intera narrazione, l’enigmatico antieroe trascina la protagonista in uno sveviano flusso di coscienza che snocciola il personaggio centrale in tutta la sua contraddittoria compiutezza. La maglietta rossa rimanda al rivoluzionario argentino («due icone al prezzo di una» ammette l’autore), ma il personaggio sembra essere funzionale esclusivamente a un’attenta analisi introspettiva che priva l’osservatore di un riferimento di verità univoca. Al pubblico l’ardua sentenza.

Di grande impatto lo spettacolo di Bob Tomson e Bill Kenwright, curato nei minimi dettagli. Accuratezza che si assaggia già dall’arrivo in teatro perché un enorme sipario divide il palcoscenico dalla platea. In un suggestivo gioco di trasparenze ci si ritrova, per una volta, dall’altra parte dello schermo, nel cinema da cui tutto il pindarico viaggio prende il volo. Grandi arcate a tutto sesto, scale e balconate con corrimani dallo stilizzato effetto del ferro battuto si articolano in diverse combinazioni per descrivere le varie ambientazioni che tramutano e migrano nell’incessabile flusso narrativo. Le oleografiche scenografie di Matthew Wright circoscrivono una realtà di raffinata eleganza che senza anacronismi fa da sfondo alla proiezione di una storia che prende vita nei salotti borghesi e negli spazi proletari. Splendidi anche i costumi che portano la stessa firma: sobri, lineari eppure di grande effetto. Tutto funziona nella complessa macchina del grande show americano: dalle luci di Tim Oliver che seguono con minuzia i risvolti emotivi della vicenda all’energiche e variegate coreografie di Bill Deamer passando per l’amplificazione elettronica di Dan Samson.

Plusvalore dell’allestimento è l’opportunità di ascoltare la prima esecuzione assoluta della versione per orchestra sinfonica trascritta dallo stesso Webber e David Cullen. La partitura, comunque, non brilla certamente per grandioso sinfonismo (confrontata, ad esempio, con West Side Story di Bernstein). David Steadman dirige l’Orchestra del Teatro Regio – opportunamente rimpolpata nelle file con strumenti elettronici e ottoni di musicisti ospiti – con grande compostezza, assecondando le necessità interpretative dei diversi stili coinvolti (tango argentino, ritmi sudamericani, ballate nostalgiche, rock anni Settanta) ed esplorando il ricco ventaglio di possibilità timbrico-espressive dell’orchestra arricchita da chitarre e bassi elettrici, sax, batteria e tastiera. Eccellenti i protagonisti: Madalena Alberto anima Evita in tutte le sue declinazioni con un’espressività molto pronunciata che impreziosisce il timbro vocale affascinante; Gian Marco Schiaretti unisce alla velenosa esplosività del Che una grande padronanza della scena. Tutti i comprimari, in generale, danno prova di grande completezza. Doverosi i complimenti al coro di voci bianche del Teatro Regio di Torino e del Conservatorio “Giuseppe Verdi” preparati dal maestro Claudio Fenoglio.

Con le uniche date del tour italiano il Teatro Regio di Torino inanella una serie di vittoriosi sold-out. Applausi interminabili, urla da stadio e commozione generale testimoniano che a Torino non è solo la “tradizione”, ultimamente troppo spesso invocata senza cognizione di causa, a sugellare la qualità e il successo di una serata. Il progetto musical da diversi anni popola il cartellone della stagione con appuntamenti meno impegnativi ma di richiamo per chi ha, verso il teatro, un timore quasi reverenziale. Lasciamo godere “la tradizione” italiana agli altri, al Regio difendiamo la qualità.

foto Pamela Raith Photography - The Useful Group