Billy Budd, opera di roma

Indimenticabile Billy Budd

 di Stefano Ceccarelli

Il Costanzi ha il merito di portare in scena a Roma il premiato allestimento del Billy Budd di Benjamin Britten a firma di Deborah Warner. La serata è stupenda, la regia fantastica, i cantanti straordinari. Sotto la bacchetta di un britteniano tal è James Conlon, l’infelice storia del bel marinaio Billy (creata dalla mente di H. Melville) prende corpo in un allestimento che è fra i più belli che abbia mai visto.

ROMA, 15 maggio 2018 – Per poche recite, purtroppo, al Teatro dell’Opera di Roma è andata in scena una produzione a dir poco straordinaria del Billy Budd di Benjamin Britten. Probabilmente, anzi, siamo di fronte alla miglior opera finora messa in scena quest’anno al Costanzi, in ogni ambito, nessuno escluso: a cominciare dalla direzione di James Conlon, che sente come pochi questo repertorio, ma anche grazie alla straordinaria regia di Deborah Warner – senza dimenticare le altre maestranze coinvolte, naturalmente.

Dalla stagione 2011/2012, James Conlon ha inanellato, nel corso degli anni, tre produzioni di Britten a Roma, legando inscindibilmente il suo nome a questo autore agli occhi del pubblico romano: prima Midsummer Night’s Dream, poi Curlew River (2012/2013) e, infine, The Prodigal Son (2013/2014). Insomma, Conlon è un britteniano di vaglia e qui a Roma non si sarebbe potuto aver di meglio sul podio; l’orchestra, poi, è in ottima forma, come sta dimostrando produzione dopo produzione. Il risultato musicale è semplicemente magnifico e la serata è squisita.

Conlon legge una partitura difficile, ricca di tensioni ritmiche, di palpitazioni repentine, che concede poco spazio alla melodia, come meglio non si potrebbe: carica di tensione la musica quando ve n’è necessità, ma sa anche volare con delicatezza su quei franti intermezzi marini (nel vero stile del Grimes) che dividono le varie scene, dosando sempre la massa orchestrale per modellarla sulla scarna, spesso scabra linea vocale dei personaggi. Rari i momenti più lirici, che Conlon sì esalta, ma mai con apparente brillantezza, sempre al contrario rispettando un colore complessivo che è scuro, cinereo, tragico.

Anche il cast vocale è all’altezza della direzione del grande maestro americano. I cantanti in scena sono veramente molti e tutti i comprimari (alcuni dei quali vengono dalla “Fabbrica” Young Artist Program dell’Opera di Roma) sono stati straordinari e hanno reso con correttezza, coerenza e opportuna vocalità il loro ruolo. Billy Budd è interpretato da Phillip Addis, che ne ha il perfetto physique du rôle e recita divinamente (si arrampica spesso, a dimostrazioni di ottime doti atletiche). A cominciare dalla ballata d’ingresso del personaggio («Billy Budd! King of the birds!») e a terminare nella struggente ‘scena del carcere’, Addis è sempre nel personaggio, trasudando candida baldanza adolescenziale, candido abbandono al mondo, pur con tutto il male di cui è pieno: peraltro, la scelta insolita operata da Britten di descrivere vocalmente un poco più che adolescente con la corda baritonale (seppur proiettata in zone quasi baritenorili, a tratti), conferisce al personaggio quasi una statuaria sicurezza, che descrive proprio l’ethos del ragazzo tutto d’un pezzo. Il capitano Edward Fairfax Vere è cantato da Toby Spence, che incarna bene il tipo vocale del tenore ‘alla Peter Pears’ (il compagno di vita di Britten, per cui scrisse proprio questo ruolo): una voce, cioè, non eccessivamente potente, ma ben sorretta, a tratti brunita, uniforme, molto ben versata nel recitativo, ricca di colori che donano fascino all’oscillante ambiguità del personaggio. Anche a livello di recitazione, Spence è incredibilmente addentro al ruolo, curatissimo in ogni particolare. Il complesso e sinistro John Claggart è cantato da uno smagliante John Relyea, che ci dà un saggio della cavernosità del suo timbro e della potenza della sua voce, che dona, col suo precipuo timbro scurissimo, un’aura ancor più sinistra al personaggio. Il suo monologo notturno, in cui si abbandona all’estasi sensuale della bellezza di Billy («O beauty, o handsomeness, goodness!»), è fra i momenti più alti della serata: Relyea riesce a trasudare un’irresistibile, carnale sensualità, pur facendo provare ribrezzo al pubblico per il suo proposito di rovinare Billy solo per la sua bellezza, che concupisce ma sa essergli preclusa. Fra i comprimari, un plauso particolare mi sento di tributare al Dansker di Stephen Richardson, non solo per la tenuta vocale ma anche per la bravura nel recitare il personaggio. Questi gli altri cantati, tutti eccellenti nelle loro rispettive parti: Thomas Oliemans (Mr. Redburn), Zachary Altman (Mr.Flint), David Shipley (Liutenant Ratcliffe), Christopher Lemmings (Red Whiskers), Jonathan Michie (Donald), Keith Jameson (A novice), Johnny Herford (The novice’s friend), Mattew O’Neill (Squeak), Francesco Salvadori (Bosun), Timofei Baranov (First Mate), Andrii Ganchuk (Second Mate), Domingo Pellicola (Maintop), Antonio Pannunzio (Arthur Jones), Lorenzo Grante (A sailor), William Hernandez (Voice).

La regia di Deborah Warner – e lo dico apertamente – rappresenta il mio ideale di regia d’opera: quando, cioè, un regista dotato, sensibile, intelligente, si accosta a un testo non suo e lo porta in scena per un pubblico terzo, tentando con un suo personale linguaggio di penetrare il senso del testo e della musica, sempre rispettando il volere dell’autore primo dell’opera. Insomma: una regia che sovrapponga racconti su racconti, interpretazioni su interpretazioni, per quanto geniale e innovativa sia, disorienta sempre lo spettatore, che rischia di concentrarsi su altro che non sia l’opera che va a vedere. La Warner, che non si sovrappone mai a Britten e librettisti (E. M. Foster e E. Crozier), lascia perfettamente vedere il suo apporto personale all’interpretazione dell’opera. La regista chiede allo scenografo Michael Levine di creare una complessissima macchina che si muove tutta sui banchi di una nave, andando anche sottocoperta. Le scene in cui i marinai attendono alle faccende e cantano della fatica e delle ingiustizie del mestiere, si svolgono tutte su un piano unico che rappresenta il main-deck della nave Indomitable: un velo di fumo rappresenta la nebbia (fisica e metaforica) che invaderà la nave; un continuo movimento di vele e corde non arrende mai lo spettatore alla monotonia. Per ricreare la cabina del capitano Vere, Levine sceglie di far concentrare le luci sul centro e di portare in scena poco mobilio: l’effetto è naturale e gradevole. Stupendo il movimento verticale del piano, che scopre il soffitto delle cabine sottocoperta, dove sono appese le amache dei mozzi. Talune scene rimangono nella mente e nel cuore. La fustigazione dell’innocente novizio (sulle cui valenze omoerotiche ha ben scritto E. Emanuele nel saggio d’apertura del programma di sala), che striscia pieno di sangue da una parte all’altra del palco. L’esecuzione di Billy, che s’inerpica su una scala fino al soffitto, involando agli spettatori la vista del suo cadavere. Ma, soprattutto, un vero coup de théâtre avviene quando Billy è incarcerato da Vere e si avvia a scendere sottocoperta, attraverso la botola della cabina del capitano, al quale porge una carezza: all’istante il palco si alza, catapultandoci nell’oscurità del carcere dell’innocente ragazzo. Queste scene stupende vengono arricchite dai bei costumi di Chloe Obolensky, che attualizzano la vicenda senza svigorirne la bellezza. Il gioco delle luci, sempre accorto e ricco, è di Jean Kalman; i movimenti coreografici di Kim Brandstrup (con la ripresa di Joanna O’Keeffe). Lo spettacolo, in coproduzione col Teatro Real di Madrid e la Royal Opera House di Londra, ha giustamente vinto L’International Opera Award: ha tutto quello che si possa desiderare. Plauso ancora alla Warner, peraltro, per l’abilità con cui fa recitare i cantanti e le comparse: lo si vede tanto nelle scene grandiose (per esempio il tentato ammutinamento per sventare la morte di Billy), quanto nei piccoli gesti, ben calibrati, che perfezionano il non detto delle scene, come quando il vessato Novizio accarezza la gamba di Claggart, che se l’è fatto amante. In tal senso, la Warner è straordinaria nell’evocare, proprio mediante una calibrata gestualità, da una parte la virile e puberale innocenza di Billy, dall’altra l’attrazione inevitabile che i personaggi che ruotano attorno al ragazzo (Claggart, il Novizio, Dansker e il capitano Vere) tradiscono per lui, che viene precipitato per essere, suo malgrado, bello: come in una tragedia greca (euripidea, più precisamente). Questo grande affresco, tutto al maschile, è mosso con maestria dalla regista, che sposta i personaggi e le masse del coro dei marinai e delle comparse come meglio non si potrebbe.

I calorosi applausi del pubblico accolgono una produzione splendida, fra le migliori che abbia mai visto in vita mia. Una mise en scène che andrebbe presa per più motivi a modello: soprattutto perché rende grande giustizia al capolavoro di Britten.

foto Yasuko Kageyama