Le Nozze coi fichi secchi

 di Giuseppe Guggino

Dimenticabilissima edizione delle Nozze di Figaro di Mozart quella coprodotta dal Massimo di Palermo con il San Carlo di Napoli e il Petruzzelli di Bari. Allo spettacolo fa da contraltare una distribuzione ampiamente sottodimensionata. A poco valgono le buone intenzioni che si colgono in buca: la serata scivola inevitabilmente nella noia.

Palermo, 18 maggio 2018 - Se per portare in scena quel capolavoro di follia, ambiguità ed erotismo che sono le Nozze mozartiane concorrono ben tre fra le maggiori Fondazioni lirico-sinfoniche italiane, è lecito aspettarsi uno spettacolo, se non in grado di superare le eleganti prospettive settecentesche di Frigerio dell’allestimento storico di Strehler, quantomeno di non sfigurare troppo. E invece queste Nozze affidate alla regia di Chiara Muti con le scene di Ezio Antonelli ben poco hanno di riuscito oltre i bei costumi di Alessandro Lai. L’architettura di scale, controscale e ballatoi, per la verità è così poco e male connotata da ringhiere e finestroni che alla fine gli ambienti evocati nei vari atti finiscono col sembrare una scena fissa. Lo stesso dicasi dell’azione, ordita con una tale quantità di eccessi e strizzate d’occhio alla commedia dell’arte, da risultare tanto confusa quanto distante dalla vorticosa cristallinità mozartiana.

La stessa modestia dello spettacolo si riflette in un cast pallido sul quale non faticano ad emergere una certa consapevolezza musicale nella Contessa di Mariangela Sicilia, le cui buone intenzioni non bastano però a superare un assetto tecnico ancora in via di assestamento, e il simpatico Cherubino, musicalmente ben centrato, disegnato da Paola Gardina.

Maria Mudryak si segnala per la vocina educata, che per Susanna risulta ancora troppo poco scaltrita. Per converso molto – forse troppo – scaltrita, più dell’usato, è Laura Cherici quale Marcellina, né i mezzi di Daniela Cappiello riescono a non sembrare acerbi persino per l’ingenua cantilena di Barbarina al quarto atto.

Non vanno meglio le cose sul versante maschile. Del Conte d’Almaviva Simone Alberghini ha la presenza scenica, elegante ed imponente, gli difetta invece quella vocale, stanti le difficoltà nelle quali incappa per buona parte della serata; analogamente plausibile in scena è Alessandro Luongo come Figaro, anche se la voce riesce spesso sorda e fatica a passare l’orchestra. Emanuele Cordaro conferma la buona prova nel recente Tell, sebbene la sua vendetta suoni alfine piuttosto invendicata; a completare, nei ruoli minori, si ritrova l’esperienza di Bruno Lazzaretti (Don Basilio), il volume un poco grezzo di Giorgio Trucco (Don Curzio) e Matteo Peirone (Antonio).

Gabriele Ferro sul podio dipana il suo Mozart usuale: grande cura del dettaglio strumentale (nelle introduzioni delle arie della Contessa, ad esempio), organico ridotto, disposto non in buca ma a livello della platea; cosa, quest’ultima, che ha il pregio di confermare la presenza al fortepiano di Giacomo Gati, la cui mimetica realizzazione del basso continuo poteva metterla talvolta in dubbio, e il difetto di palesare qualche occhiata di mutuo smarrimento nell’autogestione generale. Tuttavia, salvo qualche guasto nel finale secondo e con una prova del Coro un poco troppo sottotono, l’Orchestra porta a casa un risultato ragguardevole in termini di affiatamento e trasparenza del discorso musicale.

I pochi gli applausi a scena aperta si fanno più calorosi a fine recita: si vede che i fichi secchi, in fondo, soddisfano il palato.

foto Rosellina Garbo