Verdi bifronte

 di Roberta Pedrotti

Torna dopo vent'anni al Comunale di Bologna Don Carlo in un'edizione coronata dal successo per quel che riguarda il cast e la lettura musicale di Michele Mariotti, mentre la messa in scena firmata da Henning Brockhaus si guadagna unanimi e giustificate contestazioni.

BOLOGNA, 6 giugno 2018 - Interessi pubblici e privati, intrecci fra religione e politica, contrasto fra ideale e contingenza, libertà, repressione, autorità. Nell'Italia del 2018 se si vuole sentir ragionare seriamente di politica sembra che l'opzione migliore sia evitare l'attualità e rivolgersi a Giuseppe Verdi e al Don Carlo. Cosa non proprio rassicurante per il prossimo futuro del Paese, ma indiscutibile conferma della grandezza di uno dei massimi artisti e, sì, intellettuali italiani di tutti i tempi.

Tuttavia, nell'atteso ritorno di Don Carlo a Bologna, con il non meno atteso debutto del direttore musicale Michele Mariotti in tanto monumento musicale, la profondità del testo non riesce a prender forma nella sua completa complessità. Da un lato la concertazione cura in maniera certosina la chiarezza della dizione, affinché non si perda una parola e tutto il canto sia nel testo; dall'altro la messa in scena firmata da Henning Brockhaus fallisce completamente l'obbiettivo e si guadagna, nella calorosissima accoglienza riservata a tutti i musicisti, un compatto dissenso dal pubblico bolognese.

Da un regista della sua esperienza, infatti, ci si sarebbe aspettati un autentico lavoro sulla recitazione e sui personaggi, non di ammaestramento in alcuni gesti chiave laddove la sensazione complessiva resti di abbandono all'iniziativa individuale. La lettura teatrale si concentra in alcune trovate non sempre convincenti né ben realizzate: lascia perplessi la scena della monacazione di Carlo V, in apertura, perché spazza via ogni aura di simbolismo e mistero intorno alla figura del Frate senza fornire una chiara visione alternativa (è la realtà? un sogno, un ricordo di Don Carlo o una sua allucinazione? S'intuirebbe la volontà di presentare piani onirici e simbolici che però è sviluppata in maniera decisamente confusa). È giustificata l'onnipresenza dell'Inquisitore, che tutto vede, su tutti incombe, ma quel trono metallizzato che scarrozza avanti e indietro il povero Luiz-Ottavio Faria rasenta spesso i volentieri i limiti del ridicolo, così come Filippo II che, nell'introduzione a “Ella giammai m'amò”, infila la testa sotto un panno quasi curasse un raffreddore con i suffumigi. D'altro canto, non è affatto disdicevole mostrare Eboli che prende i voti, ma se ciò avviene durante l'introduzione al quarto atto e la principessa incrocia, uscendo, lo sguardo di Elisabetta, si ha l'impressione che “Tu che le vanità” sia rivolto alla donna e non a Carlo V, lettura invero difficile da sostenere e in palese contrasto con lo sviluppo del testo.

Fiacco anche il quadro dell'Autodafé, che punta sul minimalismo, ma si infarcisce di dettagli discutibili, non solo nell'incongruente mescolarsi di nobiltà e popolo non ben definiti, ma soprattutto nell'incomprensibile e spaesata presenza di visitatori orientali (una giapponese in kimono, un paio di indiani con il turbante e così via). Sarà anche per questa mancanza di tensione teatrale che tutta la scena dei deputati fiamminghi e della ribellione dell'Infante risulta meno incisiva di quanto ci si potrebbe immaginare. Il passo disteso più che incalzante imposto da Mariotti in questo momento avrebbe auspicato nei gesti e negli sguardi una tessitura di rapporti e tensioni al contrario del tutto latitante nel disegno di Brockhaus.

Un vero peccato, perché nel lavoro musicale di Mariotti si intende una ricerca molto attenta a dinamiche cangianti e non scontate, sì da conferire alla versione italiana della partitura una tensione ben dosata, mai frenetica o sopra le righe, ma cupa, talora ansiosa e impellente, talaltra più distesa, a lasciar spazio alla riflessione, al dialogo, ma anche al sogno accarezzato pur nella consapevolezza che s'infrangerà. L'atmosfera si sa accendere senza mai sovrastare le voci, che emergono sempre vigorose. Svetta il protagonista Roberto Aronica, in gran forma, sicuro nell'acuto, robusto nell'emissione, capace di alleggerimenti che via via, nel corso della serata, si consolidano in una convincente scelta dinamica. Luca Salsi, dal canto suo, si conferma uno dei migliori baritoni in circolazione a livello internazionale e sa sposare bene il suo timbro virile e concreto anche agli involi utopistici e all'esaltazione ideale di alcune frase, resi anche con il giusto pizzico di ingenuità.

Fra i bassi spicca, in apertura, l'ottima prova di Luca Tittoto, Frate di lusso che eleva un ruolo chiave nella drammaturgia quanto esiguo musicalmente a degno coprotagonista, confermando tra l'altro come la tecnica e l'intelligenza che lo portano a eccellere in Monteverdi, in Bach o in Mozart valga a imporlo anche in un eloquente fraseggio sulla più massiccia orchestra verdiana. Dmitry Beloselskiy, Filippo II, avrà, invece, un'articolazione del testo un po' più dura rispetto ai colleghi di madrelingua neolatina, ma è comunque in possesso di ragguardevole vocalità e di adeguata confidenza con questo repertorio. Luiz-Ottavio Faria assolve con sicurezza il suo compito come Grande Inquisitore perennemente appollaiato sul suo trono mobile.

Sul versante femminile s'impone la Eboli di Veronica Simeoni, che potrà patire – da mezzosoprano lirico a suo agio in tessiture acute – la drammaticità delle frasi nel registro grave, ma non forza mai e punta tutto, felicemente, sulla parola e sulla musicalità. Ci godiamo così una lettura di grande eleganza e chiarezza, efficace e intelligente. Viceversa a Maria José Siri si può imputare una tendenza a scurire l'emissione nella regione centro grave con effetti morchiosi non proprio gradevoli, benché la parte di Elisabetta sia risolta nel complesso con sicurezza, energia e buona gestione dinamiche, quand'anche non si possa dire elettrizzante nel fraseggio.

Nina Solodovnikova è un brillante Tebaldo, a Erika Tanaka è affidato l'intervento della Voce dal cielo, Rosolino Claudio Cardile è l'Araldo, Massimiliano Brusco il Conte di Lerma, Federico Benetti, Alex Martini, Luca Gallo, Paolo Marchini, Abraham Garcia Gonzàlez e Carlo Malinverno sono i Deputati Fiamminghi (che si inchinano solo per cantare, ben dopo la domanda di Filippo II “Chi son costor prostrati innanzi a me?”). Il coro preparato da Andrea Faidutti offre un valido contributo benché talora i ranghi risultino un po' troppo ridotti per le esigenze della partitura – ma è questione che non riguarda gli artisti, bensì chi dovrebbe finanziare i teatri e permettere di mantenere più ampi organici con i giusti stipendi.

Come dicevamo, al termine della lunga serata, il successo per i cantanti è vivissimo, per Mariotti assume i caratteri del trionfo, mentre una coltre di compatte contestazioni cala, non senza giustificazioni, sugli artefici della messa in scena: Brockhaus, lo scenografo Nicola Rubertelli (che nei suoi elementi geometrici offre forse l'aspetto visivamente migliore della serata), il costumista Giancarlo Colis (che rinuncia praticamente a far cambiar d'abito le signore qualunque cosa avvenga), la coreografa Valentina Escobar e Daniele Naldi, collaboratore di Brokhaus per le luci.

foto Rocco Casaluci