Scala, Aida sa imbarazzare

 di Francesco Lora

L’antico allestimento firmato da Franco Zeffirelli e Lila De Nobili sbaraglia gli scettici e manda in crisi, per arte, sia il teatro di regìa oggi in voga sia gli spettacoli detti tradizionali. All’insegna della miglior tradizione anche la locandina musicale, dalla direzione di Daniel Oren al canto di Stoyanova, Sartori, Urmana, Gagnidze e Kowaljow.

MILANO, 3 giugno 2018 – L’Aida di Giuseppe Verdi con regìa di Franco Zeffirelli e scene e costumi di Lila De Nobili ha fatto la storia del Teatro alla Scala. Creata nel 1963, in uso fino al 1976, nel 2009 è stata restaurata in funzione di una tournée alla Israeli Opera di Tel Aviv e nel 2012 è tornata nella sala di Giuseppe Piermarini. Lungo il suo primo mezzo secolo di vita, ha fatto le scarpe ad altri quattro allestimenti milanesi dell’opera, firmati via via da Giorgio De Lullo con Pier Luigi Pizzi nel 1972, da Luca Ronconi con Mauro Pagano e Vera Marzot nel 1985, da Zeffirelli stesso con Maurizio Millenotti nel 2006, infine da Peter Stein con Ferdinand Wögerbauer e Nanà Cecchi nel 2015. La sua ultima ripresa ha recato sette esauritissime recite dall’8 maggio al 3 giugno scorsi; ed è stata una ripresa imbarazzante. Qualche risatina da parte dei melomani di primo pelo già girava per i foyer dei teatri, pregustando la macabra estumulazione della muffosa salma dai magazzini della Scala. Negli intervalli dello spettacolo vero e proprio, quella regìa, quelle scene e quei costumi hanno puntualmente dato luogo a reciproci sguardi sgomenti: ma per il fatto – eccoci al punto – di essere una meraviglia imperitura, tornata a rammentare un’arte antica (e superiore) del portare in scena un’opera.

Essi attuano con semplicità, chiarezza e coerenza il testo poetico e le didascalie. Mandano in crisi lo spocchioso teatro di regìa oggi in voga, poiché evitano di disperdersi nei sottotesti e rimangono sempre intelligibili al pubblico, spronandolo a ragionare sul già dovizioso dettato dell’autore. Mandano però in crisi anche gli spettacoli detti tradizionali, poiché con la maniacale ed erudita cura dei dettagli sbugiardano la pigrizia di idee drammaturgiche e la pochezza di risorse materiali spesso poste in essi. Il capolavoro è negli impianti scenici ove, tra virtuosismi prospettici che prediligono il taglio in diagonale, la macchina praticabile e il fondale dipinto si confondono: l’occhio ne esce ingannato con meraviglia, come accade a Roma sotto la volta del Gesù. Ma il capolavoro è pure nella messa a punto di caratteri, gesti e movimenti di masse, se è vero che la ripresa dell’antica regìa si trova di per sé in asse sia con un’iconografia d’ispirazione ottocentesca, sia con un linguaggio accessibile al pubblico del nuovo millennio. Scabroso è solo il nuovo: le luci di Marco Filibeck, posto innanzi al più gravoso compito d’illuminare scene dipinte anziché costruite; e le selvagge coreografie di Vladimir Vasiliev, trasportate di peso – se la memoria non inganna – dall’allestimento del 2006.

Con Zeffirelli e De Nobili sarebbe mancato il senso a una lettura musicale avulsa dalla tradizione: quella migliore, s’intende. Subentrato al previsto Nello Santi, Daniel Oren ha segnato con quest’Aida il proprio tardivo debutto alla Scala: vi ha trovato la solita orchestra in stato di grazia e il solito miglior coro del mondo. Fra splendori grandoperistici – il presente sfarzo degli ottoni scaligeri fa le fiche alle grandi orchestre mitteleuropee, vantando a differenza di esse una vivacità timbrica quale si può reperire solo in Italia – il direttore ha anche chiesto loro di incedere piano, a mezzavoce, esaltandone così l’impasto, i colori e il porgere. Ad avvantaggiarsene è stata soprattutto la sorprendente Aida di Krassimira Stoyanova, che a un’organizzazione vocale di oggi inconsueto vigore annette un’ancor più rara attenzione alla scultura della parola: il monologo dell’atto I, così generosamente spaziato nella monumentalità tragica dell’accento tra un inciso e l’altro, ha indicato la perfetta intesa con le intenzioni del podio; ciò ha procurato l’indulgenza del Beckmesser di turno verso la romanza dell’atto III, ove l’eloquio risultava invece più teso che etereo, preoccupato dal Do sopracuto preso staccato e a pieni polmoni, fino a qualche eccesso di gusto verista nel successivo duetto col baritono.

Un prodigio di solidità si è riconfermata a sua volta Violeta Urmana, forse l’unica Amneris attuale che possa gareggiare con Daniela Barcellona e Sonia Ganassi per possesso dell’idioma stilistico italiano: il più invidiabile complimento che ella possa intascare tra molte colleghe straniere. La cospicuità dei mezzi caratterizzava ancora lo stentoreo Radamès di Fabio Sartori: sale e scende ovunque con forza e facilità ma, come osservavano gli spettatori francesi della fila dietro, «il n’a pas la finesse», prestando grezza fibra in luogo di squillo libero. Ancora possanza d’altri tempi nell’Amonasro di George Gagnidze, di certo più sovrano autorevole, nella rocciosa emissione, che padre amorevole all’innata maniera dei baritoni nostrani. L’allontanamento dai canoni timbrici e tecnici italiani è aumentato nel Ramfis di Vitalij Kowaljow: altero, esotico, affilato, giovanile, misterioso. Gli stessi canoni sono stati al contrario ribaditi nel Re di Carlo Colombara, declinante sì – il volume si è affievolito, il cantabile si è affaticato – ma forte di naturalezza e comunicativa. Funzionale la Sacerdotessa di Francesca Manzo. Orecchi puntati, invece, sul Messaggero dell’altrettanto giovane Riccardo Della Sciucca: un tenore che nelle battute del comprimario esibisce già stoffa degna di un protagonista.

foto Brescia Amisano