Carmen c'est toujours Carmen

 di Andrea R. G. Pedrotti

Per l'apertura della stagione areniana, la nuova Carmen allestita da Hugo de Ana non si discosta troppo dalla tradizione zeffirelliana, con elementi tuttavia d'orginalità,per esempio, nel delineare il rapporto tra Carmen e Don José. Quest'ultimo è Brian Jadge e risulta decisamente il migliore del cast, diretto da Francesco Ivan Ciampa con un'attenzione i dettagli purtroppo sovente dispersa dagli spazi areniani. Molto buona la prova dei complessi artistici della Fondazione Arena.

VERONA, 22 giugno 2018 - Dopo l’inaugurazione del 2016, è ancora Carmen ad aprire il Festival estivo della Fondazione Arena di Verona.

A differenza di due anni fa, quando per la regia ci si era affidati al collaudato allestimento di Franco Zeffirelli, per questo 2018 si è deciso di affidare la produzione a un altro regista assai esperto dell’anfiteatro scaligero come Hugo de Ana.

De Ana ha pensato di trasporre la vicenda al tempo della guerra civile spagnola, pur mantenendo invariata la drammaturgia liturgica dell’opera di Bizet. In effetti gli unici richiami al conflitto che infiammò la penisola iberica sono le divise dei soldati, una fucilazione in principio del primo atto, alcune scritte alla fine del secondo e le bandiere franchiste, contrapposte a quelle dei repubblicani, issate su alcune camionette.

Visivamente l’allestimento resta assai simile a quello firmato da Franco Zeffirelli, con il palcoscenico interamente occupato da coristi, comparse, mimi e ballerini, con una piccola Plaza de toros installata al centro del palco. All’inizio del secondo atto pareva effettivamente di trovarsi davanti allo spettacolo dell'artista fiorentino, con la taverna di Lillas Pastia rappresentata da un lungo tavolo centrale, circondato da dipinti. Nella scena vista in Arena fino al 2016, l’unica differenza sostanziale era un baldacchino centrale e i dipinti erano degli arazzi svolazzanti. Molto bello, e di grande effetto visivo il finale del secondo atto, che nel libretto potrebbe aver riferimento sia alla libertà di pensiero dei gitani sia a quella dei rivoluzionari anti-franchisti.

Il terzo atto differisce in maniera più marcata dal passato, con l’accampamento dei contrabbandieri posto dietro una grata, mentre per il quarto si torna a una scena quasi identica a quella del primo atto, con una grande bandiera spagnola issata su un pennone posto sulla destra del palcoscenico. Bellissime alcune proiezioni sul fondo dell’anfiteatro durante al preludio al quarto atto, proiezioni che si erano limitate ad alcune scritte (Sevilla, per esempio) durante il resto dell’opera.

La caratterizzazione dei personaggi risulta canonica, così come i costumi, per la maggior parte indistinguibili da quelli di una Carmen tradizionale: Carmen resta una sigaraia, così come ognuno dei personaggi resta nel suo ruolo canonico; solo il rapporto fra Don José e Micaëla appare più passionale e, soprattutto, corrisposto. Interessante l’idea di abbigliare con una veste virile la protagonista nel terzo atto, così da renderla difficilmente distinguibile dai suoi compagni e dall’aspetto androgino, al pari del carattere. Apprezzabile (teatralmente parlando) l’idea di accentuare la rabbia di Don José verso Carmen, sempre nel terzo atto, rendendola palesemente fisica e non solo verbale, quasi un’anticipazione del finale.

Le coreografie di Leda Lojodice sono, a parer nostro, la parte debole della produzione, forse anche a causa dell’esiguo numero di ballerini a disposizione e dell’assenza di un corpo di ballo stabile. Totalmente assenti nel primo atto, fungono da contorno nei successivi, a eccezione di una danza collettiva durante la Chanson Bohème che tiene ben poco conto dell’effetto disturbante provocato dal battere ritmicamente, e con una certa violenza, delle sedie sul legno del palcoscenico. Per il resto l’unica parte coreografica è marginale ai lati della scena, quasi identica a quella pensata da El Camborio per la produzione zeffirelliana.

Non entusiasma l’aspetto musicale, specialmente sul versante femminile della compagnia di canto. Anna Goryachova, che all’ascolto parrebbe aver natura vocale di soprano, presenta dei gravi creati artificiosamente ingrossando l’emissione vocale, operazione che le fa perdere smalto e squillo in acuto. La cantante russa, inoltre, si trova sovente in difficoltà nel solfeggio, perdendo fin troppo spesso il tempo, non si comprende bene se per mancanza di musicalità o difficoltà nella gestione dei fiati. Sicuramente il physique du rôle non manca a un’artista che dimostra di saper reggere la scena discretamente. La parte, tuttavia, appare oltre le sue possibilità vocali.

Mariangela Sicilia delinea una Micaëla musicalmente assai corretta, ma dalla linea di canto anodina e dal fraseggio inespressivo. La voce è sicuramente molto bella, sebbene il suono del suo strumento non si propaghi al meglio nello spazio areniano, ma manca di personalità. Buone alcune tenute di fiato e i filati del terzo, non quello tentato invano nel primo, atto. Non ritroviamo la morbidezza e la passionale sensibilità di una ragazza coraggiosa, capace di recarsi, sola, nel mezzo nel mezzo di un accampamento di contrabbandieri. L’unico vero personaggio veramente femminile, il più coraggioso e saggio passa inosservato.

Buono e funzionale l’Escamillo di Alexander Vinogradov: talvolta il baritono ha omesso qualche parola e la dizione non era sempre pulita, ma in generale la sua prestazione è oltre la sufficienza.

Migliore del cast è, senz’ombra di dubbio, il Don José di Brian Jadge, dotato di ottimo squillo e proiezione, nonché di belle intenzioni nelle smorzature. Si fa preferire nelle arti che necessitino una maggiore drammaticità e, anche come attore, dà il meglio di sé (comunque nel contesto di una prova totalmente positiva) negli ultimi due atti.

Molto bene tutti i comprimari: Ruth Iniesta (Frasquita) Arianna Alexeeva (Mercédès), Davide Fasini (Dancairo), Enrico Casari (Remendado), Luca Dall’Amico (Zuniga) e Biagio Pizzuti (Moralès).

Ottima la prova del coro della Fondazione Arena diretto da Vito Lombardi ed eccellente quella del coro di voci bianche A.LI.VE. diretto da Facincani.

Risulta interlocutoria la direzione d’orchestra del m° Francesco Ivan Ciampa che sembra volersi approcciare alla partitura di Bizet come si trovasse in un teatro di tradizione, chiedendo (almeno dal gesto si intende questo) spesso all’orchestra l’esecuzione di sfumature e di pianissimi. Purtroppo di questo arriva poco o nulla alla sala e il risultato è una concertazione appiattita sia nella dinamica, sia nell’agogica. Le sezioni appaiono sostanzialmente coese, con soltanto piccole sbavature negli ultimi due atti, e i professori d’orchestra appaiono assai diligenti nel seguire il direttore. Alla fine il risultato è una linea musicale piatta e priva d’una chiara traccia interpretativa. In Carmen questo può essere un problema più che in altri titoli, poiché ogni nota presenta una rara ricchezza di potenzialità esecutive e sfumature di significato. Non a caso era l’opera favorita di Gustav Mahler.

Da segnalare anche l'ideatore delle luci (Paolo Mazzon) e delle proiezioni (Sergio Metalli).

Molte le autorità presenti in un’Arena gremita, fra i quali il presidente del Senato della Repubblica Maria Elisabetta Alberti Casellati. Visto il folto pubblico, e i serrati controlli all’ingresso, poteva essere prevedibile una certa lentezza nell’accesso all’anfiteatro, lentezza che ha provocato un ritardo di circa dieci minuti, dilatato da un intervento del sovrintendente, Cecilia Gasdia, terminato con un ricordo di Tullio Serafin a cinquanta anni dalla scomparsa, seguito dall’ascolto di uno spezzone piuttosto lungo di un’Aida diretta dal maestro.

Per quanto fosse doveroso ricordare il m° Tullio Serafin, sarebbe stato più opportuno farlo in una sede apposita (magari un omaggio prima del Gala verdiano di agosto), senza far lievitare il ritardo d’inizio a mezz’ora abbondante, anche considerato l’obbligo della lettura di un messaggio del Presidente Mattarella e l’esecuzione dell’inno di Mameli.

Anche il saluto del massimo dirigente areniano non aveva contenuti particolari che non potessero essere inseriti semplicemente nel programma, ma ha provocato almeno ulteriori cinque minuti di slittamento dall’ingresso del direttore. Probabilmente sarebbe stato più utile dare spazio prima agli artisti e a un’opera piuttosto lunga, che per durata ha costretto molti nel pubblico ad abbandonare lo spettacolo (siamo convinti a malincuore) prima del termine, senza contare alcune nuvole minacciose che si sono sfogate in poche gocce di pioggia durante il primo intervallo.

foto Ennevi/ Arena di Verona