Teatro di tradizione

 di Giuseppe Guggino

Nella Palermo dello sperimentalismo contemporaneo di Manifesta 12 la stagione del Teatro Massimo pare collocarsi non in sintonia, rifugiandosi nella programmazione a giorni alterni di due titoli del grande repertorio quali Cavalleria rusticana e L’elisir d’amore in produzioni dal taglio tradizionale e di scarso spolvero.

Palermo, 8 e 16 giugno 2018 - L’inaugurazione di Manifesta 12 nei giorni scorsi ha catapultato in quel di Palermo una gran messe di visitatori, habitué di gallerie d’arte contemporanea, frequentatori di salotti, eccentrici d’ogni sorta attratti da una passerella di visibilità certamente internazionale. Il Teatro Massimo, padrone di casa della cerimonia inaugurale, ha contribuito con una serata dedicata all’opera africana Bintou were, a Sahel Opera, in prima italiana, proposta come recita isolata nell’esclusiva formula “evento ad inviti” con la contemporanea proiezione in Piazza Verdi.

Spenti i riflettori della serata inaugurale della kermesse alla gran messe di visitatori, però, non è rimasto che poter assistere a giorni alterni a due titoli di repertorio, proposti in chiave iperconservatrice, che poco ha a che fare con l’arte contemporanea. Non molti giorni addietro sulle colonne de La stampa, Alberto Mattioli, al sempre più largo dilagare in tutta Italia di titoli di repertorio in esecuzioni talvolta persino al di sotto del livello di routine, coniava la locuzione “opera per turisti”, riscontrando però come spesso il turista non risponda alla sollecitazione, lasciando la sala non gremita come si spererebbe. E la riflessione si attaglierebbe bene alle recite alle quali abbiamo assistito.

Poco o nulla riesce a rendere stuzzicante una Cavalleria rusticana, peraltro riproposta nell’allestimento di Marina Bianchi ad appena tre anni di distanza (con il mantenimento le incomprensibili coreografie originarie), l’anteporvi il film muto Rapsodia Satanica di Nino Oxilia con le musiche di Pietro Mascagni eseguite dal vivo. Sia perché il film è una declinazione del mito faustiano (al femminile, però) oggettivamente grottesca, sia perché l’ordito tematico, nonostante gli sforzi di descrittivismo del compositore livornese, conduce a esiti ben poco consistenti, sicché, quando affiora alle orecchie qualcosa di sensato… è solamente una citazione di una Ballata di Chopin. Affievolite le luci del proiettore su alcuni soli di violino commisurati al valore della partitura, si passa quasi rassicurati ai numeri di Cavalleria dove almeno il Coro del Massimo, opportunamente rimpolpato per via della doppia produzione, riesce a rendere piena giustizia degli insiemi, nonostante lo svogliato sostegno degli archi in buca. Dove, dal canto suo, Fabrizio Maria Carminati profonde tutto l’impegno di cui è capace ma che si rivela alterno e vano, con una compagine orchestrale colta in serata poco felice, sicché anche l’affiatamento con i solisti del cast non rimane indenne da affanni. Sonia Ganassi, di cui alla ribalta negli applausi finali s’è festeggiato il compleanno a fine recita, è una Santuzza a pieno agio nel registro acuto e che però, ad onta dell’ascendenza mediosopranile, fatica nel grave, dove la respirazione e il legato si fanno evidentemente macchinosi. Di buona pasta è la vocalità di Murat Karahan che disegna un Turiddu un poco greve ma efficace. Decisamente più sbilanciata sul villain è la prova di Gevorg Hakobyan come Alfio. Di ragguardevole entità sembrano i mezzi di Agostina Smimmero, ben calata nei panni di Mamma Lucia, mentre con poco si disimpegna Martina Belli, anch’ella pienamente calata nel ruolo della bella Lola. La poca coerenza di risultati nella concertazione fa sì che nell’intermezzo sia l’organo (in quinta, secondo partitura, e non in buca) a sovrastare arpa e archi.

foto Rosellina Garbo e Franco Lannino

Se questa Cavalleria sollecita la riflessione sul senso del repertorio in esecuzione di routine, la prima dell’elisir d’amore invece, anch’essa proiettata in piazza e in live streaming, disponibile on demand e su youtube, sposta invece la riflessione sull’utilità della critica musicale dei nostri giorni. Non tanto e non solo per dover rendere conto di uno spettacolo al di sotto del livello di guardia sotto ogni punto di vista, quanto perché anche solamente da alcuni estratti audio-video (e basta soffermarsi sulla cavatina di Dulcamara) una qualsiasi persona con vaga dimestichezza col solfeggio non potrebbe non cogliere gli scollamenti, tralasciando tutto (ma proprio tutto) il resto.

La bacchetta di Alessandro d'Agostini sopraggiunta in corsa nella produzione, dopo la malattia diplomatica del direttore titolare (messo alla porta – pare – dopo la prima prova in orchestra, secondo voci di corridoio) ha gestito con non poche difficoltà un cast nel quale la sola Laura Giordano pare garantire una prestazione professionale. L’allestimento della Nausicaa Opera International, a dire il vero, poco pare avere di internazionale, oltre alla denominazione: fra acrobati, improbabili costumi, luci tecnicamente a caso e un interminabile cambio scena per sgomberare il palcoscenico prima della “furtiva lagrima” si consuma, così, il minimo artistico del Teatro Massimo dell’ultimo ventennio. Ci si augura che anche questo non diventi “di tradizione”.

foto Rosellina Garbo e Franco Lannino