La battaglia dei sessi

 di Antonino Trotta

In conclusione della stagione lirica al Teatro Regio di Torino si susseguono i capitoli della trilogia Mozart-Da Ponte.

Torino, 26 e 27 Giugno, 1 Luglio – Volge ormai al termine la tormentata annata del Teatro Regio di Torino: malaccetti cambi di vertice, minacciose scenografie cadenti, bilanci in perdita, successi strepitosi e opere di nicchia meno graziate dal favore del grande pubblico. All’ultimo appuntamento del cartellone operistico è affidato l’onere di chiudere non solo l’interessante stagione lirico-sinfonica ma anche quello, più ingrato, di segnare definitivamente il crollo dell’impero Noseda-Vergnano durante il quale il teatro sabaudo ha vissuto momenti di indiscutibile splendore. Un arrivederci dunque inacerbito dall’amarezza di un definitivo addio, questo del Teatro Regio, che dissimula ancora i livori della malaugurata ma ineludibile separazione. Divorzio giustificato da ragioni economiche ma radicato in realtà nelle continue frizioni tra gli estremi del vecchio asse direzionale, inevitabili nel confronto tra chi è chiamato a gestire il teatro con politiche più pragmatiche e chi invece si preoccupa principalmente dell’anima artistica dell’ente. Non sempre, per fortuna, la conflittualità tra visioni differenti è sterile e Mozart e Da Ponte hanno saputo cogliere negli imperituri cliché dell’atavica battaglia tra universo femmineo e maschile una copiosa fonte di ispirazione per capolavori che hanno posto delle pietre miliari nella fertile storia del melodramma. A Torino si avvicendano, in ordine cronologico e nell’arco di due settimane, tutte e tre le opere della celeberrima trilogia, riproposte negli allestimenti del Regio a cui si ha avuto modo di assistere negli anni passati.


 

In Le nozze di Figaro (26 Giugno) si ha l’opportunità di apprezzare un fine impianto scenotecnico di stampo strehleriano. La buona coesione di Elena Barbalich nella narrazione della folle giornata è frutto di una sapiente commistione tra gli elementi di adesione al libretto e le impennate interpretative che non perdono di vista la contestualizzazione storica (al momento dell’investitura di Cherubino un tableau vivant rimanda agli albori della rivoluzione francese) e psicologica di alcuni dei personaggi. Il taglio registico accentua infatti le divisioni tra i sessi sottolineando i pregi femminili e acuendo invece i difetti comunemente imputati agli uomini: Figaro è irresponsabile (Susanna non è conoscenza del debito con Marcellina) ed erotomane (di pessimo gusto l’idea di ubicare la rappresentazione didascalica della parole di Figaro «Perché non puoi far che passi un po' qui?» nella zona pelvica del baritono); la Contessa assurge a simbolo di sacrificio, reagisce al penoso logorio sentimentale in virtù dell’amore per i tre figli e della somma dedizione alla famiglia risultando senza ombra di dubbio il personaggio più commovente, vincitrice esemplare nella sconfitta. Le scenografie di Tommaso Lagattolla sono costituite da apparati architettonici mobili che migrano durante il corso dell’azione per circoscrivere i differenti spazi d’azione e riflessione introspettiva dei vari protagonisti, contribuendo efficacemente alla visione d’insieme dell’intero spettacolo non frammentato da alcun cambio di scena. Alla luce di questa costatazione appare ancor più discutibile la scelta di inserire un intervallo tra il primo e secondo atto, imposto forse dalla sola esigenza di creare l’occasione per fare aperitivo al bar. Belli i costumi dello stesso Lagattolla e le luci di Andrea Anfossi che via via si assottigliano per spegnersi poi nel crepuscolare finale.

Meno convincente è la direzione di Speranza Scappucci, risolta principalmente nello stacco di tempi schizofrenici che in più di un’occasione hanno messo a repentaglio la tenuta dei cantanti: il duetto iniziale, ad esempio, è un rovinoso rincorrersi tra voci e orchestra e l’angoscia dei cantanti si percepisce in ogni stretta. L’attenzione agli intarsi strumentali è poco approfondita e l’equilibrio della concertazione, nel complesso piuttosto sbiadita, risente delle prepotenti sortite degli ottoni e dei timpani. Filologicamente corretto l’accompagnamento dei recitativi del maestro Jeong Un Kim.

Maggiori soddisfazioni arrivano invece dal versante canoro, a cominciare dalla splendida Susanna di Maria Grazia Schiavo. Il soprano partenopeo dà vita a un personaggio frizzante, audace, determinato e indomabile. Il timbro luminoso ma arricchito da screziature più intense e l’ottima predisposizione per il canto di agilità (come confermato dalle bellissima donna Anna che la Schiavo ha cantato alla generale di Don Giovanni in sostituzione dell’indisposta Grimaldi) designano un interprete ideale per il repertorio mozartiano. La voce, rotonda e timbrata, si piega all’esigenze musicali dell’artista che con eteree smorzature e raffinate accentazione tornisce un fraseggio limpido tanto nelle arie quanto nei recitativi. Sensualissime le filature della famosa aria finale. La consolidata frequentazione dei ruoli buffi avvantaggia scenicamente Paolo Bordogna, sempre magnetico nel suo inossidabile carisma, ma la resa musicale del protagonista maschile appare piuttosto statica nonostante il ruolo sembri a lui congeniale. Al di là dell’emissione meno sicura del solito – poco corposa in basso e più tesa in acuto – la linea vocale risulta avara di inflessioni e sfumature. Solo quando declama, il suo Figaro, regala qualche spunto interessante. Chi invece dell’espressione ha fatto la propria carta vincente è Simone Alberghini nei panni del protervo conte d’Almaviva. La vocalità robusta scolpisce nell’incisivo fraseggio un’ampia varietà di accenti e sebbene l’inizio sia un po’ in sordina, nell’aria del terzo atto il conte sfodera una vocalità sicura e perentoria. Qualità individuate parimenti nel Don Bartolo del poderoso ma sempre elegante Fabrizio Beggi, estremamente a fuoco nei ritmi serrati della sua cavatina. Serena Farnocchia è una contessa molto aristocratica, resistente alle ferite inferte dai cocci di una relazione andata in frantumi. Tale compostezza scenica si riflette nel signorile modo di emettere i suoni e porgere le frasi musicali. La voce, dal colore tipico di un soprano lirico-drammatico e di considerevole volume, presenta alcune mende (al di là nel vibrato che si accentua in acuto, nel terzetto con il conte e Susanna l’intonazione non sempre è precisa e a volte l’attacco basso di alcuni recitativi risulta infelice) ma la Farnocchia sa sinceramente animare il suo commovente personaggio, governando l’impegnativo strumento anche nei passaggi tecnicamente più brillanti. Paola Gardina è un Cherubino languido e sentimentale. Mariasole Mainini colpisce per il timbro corposo che sottrae Barbarina agli stereotipi interpretativi di ingenuità e inconsapevolezza, mentre Manuela Custer dona a Marcellina uno slancio lirico di bel fascino. Completano il cast Joshua Sanders (Don Curzio, la cui balbuzie maschera i difetti di pronuncia), Giuseppe Esposito (Antonio), Saverio Fiore (Basilio), Manuale Giacomini (Prima ragazza), Claudia De Pian (Seconda ragazza).

foto Ramella e Giannese

 


 

Se finora la complicità dell’harem mozartiano risulta essere il vero motore dell’intera macchina teatrale, nel capitolo successivo della trilogia le donne appaiono semplici ingranaggi di un leveraggio drammaturgico molto più complesso e teatralmente irrisolto. L’oscurità del folto giardino delle Nozze si collega perfettamente al tenebrore imperante in questa produzione torinese di Don Giovanni (27 Giugno), eseguito nella versione viennese.

La regia di Michele Placido, ripresa da Vittorio Borrelli, disloca l’azione in un contesto non ben definito: non si sa se si tratti della Sicilia o della Spagna, ma la ricostruzione di ambientazioni rurali e alcune trovate teatrali (la contadina che infastidita ritira le lenzuola esposte per ostentare la purezza di Zerlina sposa durante la canzonetta «Deh vieni alla finestra») instillano l’idea di un losco meridione. Si enfatizza molto, troppo, al limite del soffocante, l’alone gotico che circonda l’intera vicenda – acuito oltremodo dalle scenografie tetre e dai costumi luttuosi di Maurizio Balò, dalle luci basse e fisse di Andrea Anfossi e dal mortuario panneggio utilizzato nei cambi di quadro – senza però soffermarsi per investigare una caratterizzazione più sfaccettata dei personaggi. Specialmente le donne soffrono di questa superficiale dipintura, ridotte infine a un muto calderone di difetti (Donna Anna è defraudata di impeto, Donna Elvira anticipa le manie degli stalker, Zerlina è lasciva).

Daniele Rustioni, debuttante nell’opera, con un abile gioco di prospettive interpretative sa imporre alla concertazione dinamiche e timbrature contrastanti, valorizzando l’aspetto serio della vicenda senza rinunciare a cabrate parodistiche. Ne è lampante esempio il preludio iniziale, un tormentoso avvicendarsi di luci e ombre dove alle mestizia delle incisive arcate iniziali, viepiù intensificate dai parossistici rintocchi dei timpani, seguono volate leggiadre e solari. Rustioni pronuncia tese dinamiche e controlla le relazioni agogiche col solo obiettivo di sostenere, meglio della regia, l’irruento effluvio emotivo straripante dalla partitura. Il giovane direttore cura sempre con grande dedizione gli intrecci strumentali, riservando ai legni e agli ottoni ampi spazi di emersione, con risultati a volte discutibile seppur legittimi (troppo invasivi nella celebre aria di Leporello). Buona la prova del maestro Gianandrea Agnoletto al fortepiano.

Di spicco le voci maschili. Carlos Álvarez è il trionfatore della serata: la vera definizione di Don Giovanni si sostanzia nella sua eccellente prova. L’emissione sicura permette di carpire ogni dettaglio della complessa personalità che attinge fascino all’accuratezza musicale e interpretativa. Dai recitativi all’incantevole aria «Deh vieni alla finestra», trasudante di sfumature, la ricercata costruzione scenica, il nitore del fraseggio e la malleabilità del colore definiscono la lettura perfetta dell’inafferrabile seduttore. Al Don Giovanni di Carlos Álvarez fa da contraltare l’egualmente valido Leporello di Mirco Palazzi. L’espressione è ovunque ragionata e misura, scevra di banali eccessi, la voce tornita con audaci dinamiche e la tecnica solida consente sicuri scatti virtuosistici. Juan Francisco Gatell (Don Ottavio) lavora molto sulla punta, assesta belle mezze voci in «Dalla sua pace» e si fa sonoramente apprezzare per l’audacia palesata nella seconda aria. Fabio Maria Capitanucci, baritono dal timbro chiaro, veste i panni dell’ingenuo Masetto. Gianluca Buratto, basso dallo strumento portentoso, differenzia con grande effetto le due declinazioni del commendatore, prode in vita, sinistro e solenne da morto.

Carmela Remigio vanta un materiale vocale di grande pregio. Il timbro vellutato contraddistingue la cantante, la sofisticata tecnica rinvigorisce la vocalista, lo stile e la musicalità completano la grande artista. La prova non procede senza intoppi, questo è vero (c’è qualche imprecisione di intonazione nel «Mi tradì quell’alma ingrata»), ma la classe della sopraffina belcantista vola oltre l’inanellamento di sterili note. Rocío Ignacio ha una voce importante ma alcune vocali sono eccessivamente aperte e schiacciate. La tenuta delle fioriture è lodevole e la ricchezza sonora conferisce a Zerlina una caratura più sostanziosa. Erika Grimaldi mostra invece il fianco nell'impervia ultima aria di Donna Anna. Il soprano astigiano si fa apprezzare maggiormente nei momenti di abbandono melodico sfoggiando pregevoli messe di voce. Manca però intenzione al personaggio, piuttosto sommesso.

foto Ramella e Giannese


 

Il match conclusivo dell’interminabile battaglia dei sessi si gioca in una luminosissima Napoli. La dialogica visiva intavolata dell’allestimento sabaudo di Così fan tutte (1 Luglio) supera di gran lunga quella delle due produzioni precedenti. Sul fondale campeggia una splendida immagine del golfo di Napoli visto da sud (si riconoscono Castel del Monte e la certosa di San Marino sulla collina del Vomero) mentre un sipario raffigurante un dettaglio di vita portuale maschera il palcoscenico durante i cambi di scena (piuttosto rumorosi). Le scenografie di Luciano Ricceri ricostruiscono una Napoli nobiliare tardo settecentesca di grande suggestione (bellissime le arcate di Palazzo dello Spagnuolo utilizzate per definire la villa delle «dame ferraresi») e l’utilizzo di drappeggi un po’ in disuso nell’arredo interno suggerisce perdipiù l’idea di una borghesia decadente che legittima, sul piano puramente pratico, il desiderio delle sorelle di convolare a nozze con uomini di «buona borsa». La regia di Ettore Scola, ripresa da Vittorio Borrelli, nel rispetto assoluto della “tradizione” (accezione di cui farei volentieri a meno), lascia poco al caso e approfondisce gli spunti giocosi del libretto con estrema perizia teatrale. Si canta spesso in proscenio e la movimentazione delle masse è meccanica e datata (soldati e popolani fanno irruzione nel giardino a passo cadenzato di marcia) ma l’ingegno registico è efficace nel gestire la staticità dei momenti musicali offrendo in contrappunto siparietti arguti. Diverse le illustrazioni letterali, alcune di esse molto simpatiche (Fiordiligi avvicina all’orecchio il polso del pretendente “avvelenato” e Ferrando si fionda su di un ponteggio quando Guglielmo gli sconsiglia di precipitarsi «per una donna che non val due soldi»), altre più imbarazzanti (Dorabella, legata al principe albanese prima della passeggiata funesta, trova refrigerio dal «pizzicore» sventolando con un ventaglio la zona inguinale). I costumi di Odette Nicoletti ben confanno al taglio registico anche se Don Alfonso, qui mercante di stoffe o stilista antesignano, somiglia molto di più a Falstaff che a un vecchio filosofo. Anche Despina ha un qualcosa di tirolese e ricorda per sommi capi l’Amina della Sonnambula nell’allestimento di Mary Zimmerman. Minuziose le luci di Vladi Spigarolo, precise nello scandire lo scorrere del tempo e attente alle minuzie sceniche (le luci cambiano quando Despina apre e chiude le finestre).

Sul podio Diego Fasolis compie un lavoro eccellente nella brillante concertazione dell’ultima opera della trilogia. Il manierismo sopraffino del direttore svizzero conferisce all’orchestra del Teatro Regio una gamma di colori ricca e variegata. L’equilibrio delle varie sezioni è una costante garantita per tutta l’esecuzione e il gran gusto nella ricerca del particolare sposa lo spigliato istinto drammaturgico. Le sonorità si fanno evanescenti dei momenti di slancio lirico (fantastico in tal senso, ad esempio, il terzettino «Soave sia il vento») e si affilano nei celeri abbrivi che accompagnano gli istanti più concitati. Encomiabile la cura nelle frasi, nell’equilibrio tra buca e palcoscenico e nell’attenzione alle esigenze dei cantati. Per lui grande applausi già alla fine del primo atto, quando impugna lo spartito per convogliare su Mozart gli entusiasmi del pubblico. Molto belli gli inserti del violoncello nel basso continuo, in particolar modo nella chiusura di alcuni recitativi, mentre il generoso fortepiano del maestro Carlo Caputo, gradevole nello scioglimento di pause e corone, abbonda troppo di leziosi arpeggi.

Altrettante soddisfazioni giungono dalla compagnia vocale, molto valida quasi nella sua interezza. Roberto de Candia è irresistibile, il suo Don Alfonso è un burattinaio arguto e sagace. La linea vocale è solida, brunita nel colore, doviziosa di sfumature e inarcature istrionesche, il tutto commisurato con un garbo e un distinto senso della misura tale da preservare l’aura intellettuale del confutatore di illusioni. Decisamente più macchiettistica la Despina di Lucia Cirillo, mezzosoprano impegnato principalmente nel repertorio barocco e caratterizzato da vocalità decisamente più sopranile. Gli abbellimenti del ruolo sono sviluppati tutti nella tessitura centrale, laddove la cantante trova evidentemente più agio, ma ogni tanto la pulizia dell’emissione è sacrificato in virtù di goliardate strappa risate. Ottime le sorelle che si impongono per grande affiatamento. Annalisa Stroppa contrappone alla superficialità del personaggio una verace intensità nel ruolo. La voce risulta omogenea in tutta l’estensione, con centri e gravi ampi e acuti squillanti. Negli accenti e nel modo di porgere la sua Dorabella, dirompente nell’aria di sortita, acquista una femminilità di maggior spessore. Federica Lombardi da sfogo ai rimorsi di Fiordiligi con sobrietà. Il giovane soprano fronteggia con destrezza le agilità del «Come scoglio» ma non sempre la salita è lineare e i picchiettati risuonano poco a fuoco, specialmente se emessi senza l’appoggio del forte. Al di là di queste piccole imprecisioni, il personaggio complessivo è fascinoso e pienamente convincente. Il baritono Andrè Schuen tratteggia un Guglielmo tenace sulla scena e nella resa vocale. La pronuncia è pressoché perfetta (è l’unico del cast a non essere italiano), il timbro seducente; l’emissione baldanzosa assicura granitiche puntature in acuto che avvalorano l’audacia del giovane soldato. La partecipazione attoriale è convinta e convincente, qualità non pervenuta nel Ferrando di Francesco Marsiglia, purtroppo noioso da ogni punto di vista. La tenuta è sempre periclitante, soprattutto in acuto, dove la voce si irrigidisce e l’emissione si fa muscolare, penalizzando ulteriormente un volume già piccolo. I recitativi sono frettolosi e il fraseggio monotono. Unica nota positiva dell’intera performance è la buona agilità nella coloratura richiesta nei concertati.

Validi i brevi interventi del Coro del Teatro Regio preparato dal Maestro Andrea Secchi. Onore all’Orchestra, assoluta protagonista di questa maratona, sempre capace di veicolare appieno l’impronta dei tre direttori.

Con un unanime ex aequo si conclude l’eterna battaglia tra i due sessi. Tanti pregi, molte debolezze, nessun vincitore e nessun vinto. Trionfa solo la musica, trionfa il teatro, trionfa l’intelligenza di chi sa osservare l’universo con occhio critico e ironico. Il riscontro favorevole del pubblico, sempre numeroso in ciascuna recita, consacra il successo di un progetto tanto impegnativo quanto pavido. Divorati da dubbi amletici congediamo per la pausa estiva il Teatro Regio di Torino, senza mettere però a tacere il briciolo di disincanto verso la prossima stagione, molto criticata dal drappello di inflessibili appassionati (me compreso, sia chiaro) che impietoso s’è levato sulle pagine social del teatro nelle ultime settimane. Una riflessione del tutto personale è d’uopo. La banalità della nuova programmazione non va imputata esclusivamente alla spicciola progettualità della nuova direzione. Parte della colpa grava anche su chi al teatro dà vita. Molti degli interessantissimi appuntamenti di quest’anno (I lombardi alla prima crociata, uno degli spettacoli musicalmente più belli degli ultimi anni, il dittico Il segreto di Susanna/ La voix humaine, Salome, il meraviglioso allestimento dell'Orfeo, Tristan und Isolde, durante cui buona parte del pubblico è fuggito al primo intervallo) non hanno ottenuto assolutamente il consenso meritato. A volte basterebbe allargare di poco i proprio orizzonti per accorgersi che la bellezza si nasconde copiosa anche altrove. Altrimenti, fin ch’han dal vino calda la testa, una gran festa è facile preparar.

foto Ramella e Giannese