L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Riflessi di Violetta

 di Roberta Pedrotti

Deludono molto la regia rinnovata dallo stesso creatore Henning Brockhaus e la concertazione estenuante, e problematica per le voci, di Keri-Lynn Wilson nella ripresa della storica Traviata dello Sferisterio, che tuttavia continua ad affascinare per l'invenzione scenografica del compianto Josef Svoboda.

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MACERATA, 22 luglio 2018 – Un allestimento sperimentale, uno spettacolo moderno e godibilissimo, un grande classico che rappresenta l'identità stessa del festival e dello Sferisterio: le tre produzioni principali del cartellone maceratese si trovano in perfetto equilibrio nella progettazione, un equilibrio intelligente che fa dialogare diversi aspetti dell'oggi con quel che può perpetuarsi (non voci transeunti, ma un oggetto, una scenografia) del passato. Fra queste tre colonne portanti, fioriscono nella cittadina e nei dintorni iniziative collaterali come gli Aperitivi culturali del mezzogiorno (e si alternano come interlocutori nelle prime giornate Enrico Girardi, Graham Vick, Barbara Minghetti, Francesco Lanzillotta, Angelo Foletto, Carla Moreni, Henning Brockhaus) o i Concerti in cantina (apertura con Minghetti e Lanzillotta a conversare con Alberto Mattioli del suo libro Meno grigi iù Verdi e ad ascoltar musica fra i vigneti dei colli marchigiani). C'è poi l'attesa per We can be Waves, il progetto vincitore del concorso per giovani compositori e gruppi artistici che perpetua la felice consuetudine di dedicare nei giorni del festival uno spazio per le musiche d'oggi nella sala del Lauro Rossi.

E poi si torna a Verdi, nell'antico stadio della pallacorda, e a quella “Traviata degli specchi” che dal debutto nel 1992 è diventata una sorta di simbolo dello Sferisterio. C'è chi torna per l'ennesima volta, chi attende di vederla finalmente là dove è nata, fra nostalgia, affetto, speranza.

Il lavoro di Josef Svoboda resta, a distanza di tanti anni, magnifico. Nella sua essenzialità questa scenografia è un autentico capolavoro, non solo spettacolare, ma anche significativo, per il ribaltamento degli spazi (i fondali sono in realtà stesi a terra, come tappeti), per quell'accartocciarsi progressivo degli ambienti, per la loro definizione con sapienti collage di opere d'arte e antiche incisioni, l'idilliaca casetta di campagna, un prato di margherite che tutto sembra avvolgere, ancora per quel finale in cui lo specchio si solleva e abbraccia l'intero Sferisterio, il sacrificio sublime di Violetta, l'orchestra, il pubblico si intrecciano, si scrutano, si compenetrano. Un lavoro di genio che non cessa d'esser tale, ma che fagocita purtroppo l'intera essenza della messa in scena, mancando oggi un disegno registico all'altezza. In alcuni casi, anzi, è evidente che l'azione sia solo in funzione dello spazio, come quando due anonimi acquirenti contrattano con Annina e si aggiudicano lo scrittoio e le sedie in vimini di Violetta: una scenetta che sembra avere, più che la funzione di mostrare quell'”alienar cavalli e cocchi e quanto ancor possiede”, quella di sgombrare il campo all'apparizione del prato fiorito, tant'è vero che alla bisogna Germont torna a prendersi una poltroncina già venduta e la stessa Violetta seguiterà a far uso senza problemi dei mobili. Per di più la compravendita ruba l'attenzione al momento chiave dell'intera partitura, vale a dire l'incontro fra la protagonista e l'implacabile padre di Alfredo. Se l'opera di Svoboda non sembra invecchiata di un giorno, Henning Brockhaus, che ha curato personalmente la ripresa, non rinnova per il meglio la regia dello spettacolo simbolo dello Sferisterio. Nella completa, prevedibile convenzionalità dell'insieme, si segnalano, purtroppo varie cadute di stile, come il trenino capodannizio trash degli ospiti di Flora o lo schieramento quasi militaresco di solisti e coro nel finale secondo, tutti in fila come in un'illustrazione ottocentesca. Della malattia di Violetta si percepisce davvero poco: anche il malore del primo atto consiste sostanzialmente nel buttare a terra due sedie e la parrucca che la nostra Signora delle camelie indossa alle feste e coccola durante l'”Addio del passato” (dopo essersi provata un cappellino alla maniera della Folleville del Viaggio a Reims) è solo un vezzoso orpello, che nulla ha a che fare con la necessità di occultare un qualche decadimento fisico.

L'impianto scenico di Svoboda, immutato e sempreverde, sembra ormai quasi stridere con la mano registica di Brockhaus invecchiata malamente e intervenuta peggiorando il lavoro originario; tuttavia il grande problema di questa Traviata risiede nella bacchetta. Keri-Lynn Wilson intende evidentemente la concertazione come l'implacabile meccanismo di un metronomo che nulla può turbare, né lo sviluppo della melodia, né il senso della parola scenica, né l'incedere del dramma, né tantomeno le caratteristiche dei cantanti. Tutto procede uguale a se stesso, in un'apatia claustrofobica e inane. Forte della maggior esperienza, Luca Salsi reagisce imponendo il suo Germont anche a dispetto delle costrizioni del podio. Canta come sa fare, esibisce la voce bella, franca nell'espansione che gli conosciamo, appaga il pubblico, si afferma senza problemi in un contesto non facile. Viceversa patisce la Violetta di Salome Jicia, che pure potrebbe vantare una confidenza anche ad alti livelli con il repertorio belcantista e tuttavia si trova ad arrancare proprio nella coloratura del primo atto. È vero che la scrittura verdiana è ben differente da quella rossiniana e che la parte può non essere la più idonea ai mezzi del soprano georgiano, tuttavia una concertazione più sensibile siamo convinti che avrebbe potuto risparmiarle tanto affanno e tanta approssimazione nel finale primo. Difatti, nel prosieguo, la Jicia si rinfranca, la voce riacquista smalto e non mancano intuizioni suggestive, che finiscono sempre, però, per cozzare con l'imperturbabile metronomo sul podio.

Discorso simile si può fare per l'Alfredo di Ivan Ayon Rivas, giovanissimo tenore emergente e già assai richiesto dai nostri teatri. La voce è senz'altro di qualità, il timbro virile e baldanzoso: le potenzialità per ben riuscire nel ruolo dell'innamorato immaturo sono tutte evidenti, ma per un venticinquenne che debutta allo Sferisterio – e in una parte musicalmente spesso scoperta rispetto al sostegno orchestrale – si sarebbe auspicata una qualche collaborazione dalla Wilson.

Se si esclude il Gastone periclitante di Silvano Paolillo, le parti di fianco risultano ben caratterizzate e distribuite fra Mariangela Marini (statuaria Flora dominatrice), Marianna Mennitti (un'Annina particolarmente cinica), Lorenzo Grante (sbrigativo barone Douphol), Stefano Marchisio (sottomesso marchese d'Obigny), Giacomo Medici (premuroso dottor Grenvil), Alessandro Pucci, Gianni Paci e Roberto Scandura, precisi Giuseppe, domestico di Flora e commissionario. Continuano a convincere anche l'Orchestra regionale e il Coro lirico marchigiano, quest'ultimo affidato alle cure preziose di Martino Faggiani in collaborazione con Massimo Fiocchi Malaspina. Bene anche la banda Salvadei negli interventi dalle quinte.

Grandi applausi alla fine a suggellare la realizzazione del motto #verdesperanza di questo festival: una memoria ben salda nella storia rappresentata dallo specchio di Svoboda, uno sguardo fiducioso e un forte impegno proiettato al futuro, un pensiero alla natura e al territorio sia nelle ferite sismiche ricordate con mostre e istallazioni, sia nei prodotti tipici, nelle colline dipinte da vigneti e campi di girasole, nella luna e nelle stelle che, insieme, fanno da corona alle recite dello Sferisterio.

foto Alfredo Tabocchini


 

 

 
 
 

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