Figaro nelle terre di Tell

 di Roberta Pedrotti

Debutta l'opera in forma scenica al LAC di Lugano, debutta con un omaggio a Rossini nel centocinquantesimo dalla morte: Il barbiere di Siviglia diretto da Diego Fasolis con la regia di Carmelo Rifici è un successo di pubblico ricco di spunti interessanti.

LUGANO, 5 settembre 2018 - In un'Europa tesa fra gli estremi di confini ormai superati – si stanno per celebrare i venticinque anni da Maastricht, e bisognerebbe ricordare cosa significasse viaggiare fuori dall'Italia solo qualche lustro fa – e la folle ambizione a nuovi muri, la Svizzera e il Canton Ticino restano come una bolla neutrale e fuori dal tempo, non priva di fascino. Osservando l'apertura dei monti nel bacino del lago di Lugano torna alla mente il passo del Wilhelm Tell di Schiller in cui l'eroe descrive al figlio la meraviglia delle pianure feconde e soleggiate che si estendono a sud delle Alpi e al ragazzino che, quindi, si domanda perché mai si ostinino a vivere fra cime insidiose e indomabili risponde rivendicando libertà e solidarietà del popolo dei cantoni. Quale che sia l'attinenza all'attualità di questo passo, non si può non ricordarlo nell'osservare la vallata in cui si parla italiano e si paga in franchi svizzeri. Qui, sulle sponde del lago, sta per compiere tre anni la splendida struttura del LAC, centro culturale all'avanguardia, appoggiato all'antica struttura di un convento di cui rimane parte del chiostro e, soprattutto, una pregevole chiesa cinquecentesca (voluta da francescani senesi discepoli di San Bernardino, e l'impronta dell'origine è evidente). Vi convivono un museo d'arte moderna, una libreria, spazi comuni per diverse iniziative e una sala divisa fra concerti e stagione di prosa. Mai prima d'ora, infatti, il LAC aveva ospitato l'opera in forma scenica, ma la buca dell'orchestra è prevista e l'occasione del centocinquantesimo dalla morte di Rossini è l'occasione perché, finalmente, anche il melodramma riconosca nella struttura e nello spazio rivestioa in legno di pero una sua casa.

Non sarà l'eroe dei cantoni Guillaume Tell a tenere a battesimo l'opera e a celebrare Rossini al LAC, bensì lo stesso titolo che qui, quarant'anni fa e in altra sede, era stato concertato da Alberto Zedda. Scelta saggia, impreziosita da una virtuosa collaborazione con la Radiotelevisione Svizzera Italiana (che valorizza l'evento e vi presta il suo complesso corale) e dall'interesse suscitato dalle scelte interpretative di Diego Fasolis sul podio.

Torna, allora, ad aleggiare lo spirito di Tell, ché la libertà è anche il concetto ispiratore di questa lettura del Barbiere di Siviglia. Libertà e non arbitrio, ché le scelte di Fasolis, i margini in cui muove anche l'improvvisazione e l'invenzione, sono fondate su criteri ben precisi, quelli delle esecuzioni storicamente informate di cui il maestro ticinese è appassionato esponente. Opzione sostanziale ma, forse, meno appariscente di altre è quella che riguarda il diapason, accordato a 430 Hz invece che a 440 Hz: dal punto di vista storico, sappiamo bene che fino almeno al 1939, l'accordatura standard non esisteva e l'intonazione poteva variare anche sensibilmente di città in città, tuttavia, in media, è possibile indicare intorno ai 430 Hz la frequenza media, o comunque indicativa, del La ai tempi di Rossini. Si tratta, in fin dei conti, di una differenza lieve, all'incirca un quarto di tono, che però incide comunque e sul profilo estetico e sul profilo tecnico dell'interpretazione, nonché, di riflesso, sulla percezione. Non cambia molto nelle tessiture effettive, ma quel tanto che basta a restituire un suono più morbido e brunito, a facilitare l'espansione della voce – cosa che influisce anche sull'articolazione dei tempi – e ridurre la tensione in acuto. Ciò non toglie che la scelta di due mezzosoprani per Rosina e per Berta metta in difficoltà quest'ultima sugli acuti del finale primo, mentre per tutti ai vertici del pentagramma meno aspri rischiano di corrispondere alcuni passaggi meno agevoli nel registro grave. Differenze infinitesimali nell'intonazione fanno comprendere quante sfumature affascinanti e delicate possa abbracciare la voce umana. Lo avvertiamo soprattutto nell'Almaviva di Edgardo Rocha, che siamo abituati ad ascoltare per lo più in ruoli contraltini e qui si trova alle prese in una parte già piuttosto centrale e per di più lievemente abbassata rispetto all'uso corrente. Ne sortisce un personaggio sempre fresco e giovanile, ma più lirico, giustamente a metà strada fra Cimarosa e Donizetti, di quanto si ascolti solitamente, sicché si mostra anche sotto una diversa luce sentimentale e ombreggiata perfino la grande affermazione d'autorità e protagonismo del rondò finale. C'è poi il Figaro di Giorgio Caoduro, che si iscrive a pieno diritto fra le migliori e più moderne incarnazioni del vulcanico barbiere: nulla di troppo, sopra le righe, nessuna gigioneria, anzi, un gioco di cesello sul fraseggio per seguire rispettosamente il dettato rossiniano e liberare il dinamismo del personaggio nella giusta misura. Non si dimentica che Figaro è un motore dell'azione, ma non è mai veramente risolutore (le situazioni critiche sono superate sempre per l'autorità e il denaro del Conte) e Caoduro rende benissimo con l'eleganza della presenza scenica e del canto ben tornito quest'ambigua ambivalenza. Nemmeno Rosina, a dispetto dei suoi proclami, è veramente risolutrice grazie alle millantante “cento trappole”, eppure la musica le conferisce un'energia propulsiva che Lucia Cirillo calibra con tutte le ombreggiature di una tessitura fattasi più contraltile e che, ancora una volta, nell'articolazione suggerita da Fasolis, si riallaccia allo spirito ma anche al sentimentalismo dell'opera buffa napoletana. Riccardo Novaro è un Don Bartolo che accenta con chiarezza e non perde la sua dignità in una commedia che non è buffoneria; pur nei cupi panni di un tradizionalissimo Don Basilio anche Ugo Guagliardo sa gestire l'ingombrante maestro di musica con esatta misura. Qualche affaticamento si percepisce nella Berta di Alessandra Palomba, che però si produce in variazioni spiritose e conferisce un interessante carattere allucinato alla sua aria. Yiannis Vassilakis è Fiorello, Matteo Bellotto un Ufficiale e Alfonso De Vreese Ambrogio.

Abbiamo detto che con un'accordatura lievemente più bassa anche il canto pare articolarsi ed espandersi diversamente, e ciò è causa ed effetto anche del lavoro dinamico di Fasolis, che studia una prosodia musicale distesa e mobilissima. Libera, ma sempre non arbitraria nel suo rubare incessantemente nel tempo in favore di un più disinibito recitar cantando – e il rapporto fra musica e parola è eloquente nel ripristino delle appoggiature – non si muove nella direzione dell'esattezza geometrica e perfetta che pure è parte del linguaggio rossiniano, bensì gioca le sue carte in un senso opposto e altrettanto legittimo, tanto è divinamente ambigua e sfaccettata l'opera del Pesarese, di commedia, sentimento, improvvisazione. In quest'ottica si sviluppa anche il discorso strumentale con una smilza orchestra di strumenti d'epoca (I barocchisti) che sciorina colori e spessori completamente diversi da quelli moderni, ruotando intorno al fulcro costituito e dall'apporto timbrico di tre chitarre e soprattutto dall'intelligente interazione fra cembalo e fortepiano. Difatti, se i recitativi non coinvolgono archi per la realizzazione del basso continuo, giocano comunque sulla varietà degli accostamenti fra corde percosse e pizzicate, reinventando con interessanti effetti l'antica compresenza di due tastiere, ai capi opposti del proscenio, per fungere da punti di riferimento stereofonici per i cantanti. Nondimeno, se nei decenni a cavallo fra XVIII e XIX secolo l'uso del continuo in orchestra stava tramontando inesorabilmente, la gradualità e l'irregolarità del processo può ben giustificare una presenza di cembalo e fortepiano nell'ouverture e nei vari numeri della partitura. Questo perché Fasolis non fa come chi, e non sono pochi anche ad alti livelli, li fa suonare pedissequamente durante tutta l'opera solo per darsi un'aria filologica, ma giustamente li rende parte attiva in un discorso, in un gioco di contrasti, di improvvisazioni, di fantasia ben indirizzata. Allora, i principi dell'esecuzione storicamente informata acquistano valore proprio perché sono un mezzo e non un fine, e di fronte al dibattito storico su questo o quel dettaglio scivoliamo alla più pura e sana evidenza teatrale di una lettura che sfrutta la ricerca e il dibattito per dire qualcosa di personale e intrigante.

Nondimeno ben riuscita, in giusta sintonia con la visione musicale, è la messa in scena coordinata dal regista Carmelo Rifici con le scene di Guido Buganza, i costumi di Margherita Baldoni e le luci di Alessandro Verazzi. Si riflette sul mito del Barbiere di Siviglia, sulla natura prismatica e proteiforme di un capolavoro dalle inesauribili chiavi di lettura, e si concentra, quasi distilla un'azione essenziale, tradizionalmente sviluppata nei rapporti (fatto salvo un accenno seduttivo fra Figaro e Rosina) e contestualizzata nei costumi dell'epoca di Beaumarchais. Intorno ad essa elementi quasi simbolici, sagome di strumenti musicali sovradimensionati o di ambienti o didascalie colorate da luci al neon, suggeriscono e amplificano la suggestione surreale che a sua volta si iscrive in una sala tutta ricoperta di azulejos. Ma le tipiche ceramiche iberiche ci ricordano anche quelle marchigiane, pesaresi e così il cerchio si chiude.fra diversi piani di realtà e finzione. Parimenti, figure biancovestite, spiriti musicali evanescenti in moto perpetuo, s'infiltrano discrete nell'azione ad accompagnare le dinamiche rossiniane.

Il pubblico è eterogeneo, curioso o impettito, ingenuo o scafato, tutto radunato intorno alla novità dell'opera a Lugano. Si ride, si applaude, alla fine è un successo, con il pubblico per lo più italofono che defluisce con svizzera compostezza nella tiepida notte lacustre.

foto M. Pasquali