Forse il gioco riuscì

 di Roberta Pedrotti

Due compagnie di giovani si alternano in Un giorno di regno a Busseto, confermando, in un temibile banco di prova, qualità interessanti e qualche margine di perfezionamento.

BUSSETO, 13 ottobre 2018 - Qualche lustro fa, quando cominciai a frequentare gli spettacoli proposti dal Circuito Lirico Lombardo, spesso gli allestimenti scenici non nascondevano risorse limitate. Poi, quando l'AsLiCo riprese Le comte Ory nella produzione già pesarese e scaligera di Pizzi, quell'essenzialità di elementi architettonici e colori, anche senza sfarzi e sprechi, ci catapultò in un'altra dimensione, si respirava l'atmosfera del teatro più blasonato. Questo ricordo personale si riaffaccia alla mente ora che si torna a incontrare la classe di Pizzi reinventata dal fido Massimo Gasparon nel passaggio dal natìo Regio di Parma al microscopico Verdi di Busseto. In un lampo l'assurdo teatrino che Verdi non approvava respira a pieni polmoni, e, nelle distanze forzatamente ravvicinate, ci immerge in colori puri e complementari, in aromi di nebbie e salumi (questi ultimi davvero percepibili al momento dell'ostensione gastronomica che apre il secondo atto). 

Come già avevamo notato per la recita del 3 ottobre [leggi la recensione], l'allestimento si vede e si rivede sempre con gusto, è uno di quei capolavori che raccontano a meraviglia l'arte di Pierluigi Pizzi. Oggi, per di più, un cast mediamente più disinvolto sul palcoscenico, con un pizzico d'esperienza in più, ha senz'altro giovato alla tenuta teatrale complessiva. Forse ha anche galvanizzato la bacchetta di Francesco Pasqualetti, che rispetto all'ascolto precedente è parso dar sfogo a qualche decibel ulteriore, probabilmente superfluo in spazi come questi, ma comunque non tale da coprire le voci sul palco. 

L'impresa non è semplice per cantanti, quand'anche non esordienti, giovani e alle prese con un'opera assai ostica e insidiosa in uno spazio che può allettare e tradire come una sirena. Difficile resistere alla tentazione di qualche compiacimento, per esempio, o dell'abbordaggio di tessiture altrimenti non proprio congeniali; trappole comprensibili, evitate per lo più con garbo, lasciando il desiderio di riascoltare questi interpreti, a partire dai meno noti in locandina. Diana Rosa Cardenas Alfonso, Giulietta, è sicura e pepata come si conviene, ma serve anche con morbidezza la malinconia di "Non san quant'io nel petto": le manca giusto un po' più di punta nella voce, soprattutto in quel registro centro grave che la parte, perfida, non manca di sollecitare, ma data la giovane età le premesse per seguire con attenzione la sua carriera ci sono tutte. Darebbe adito a maggiori perplessità l'Edoardo di Martin Susnik, se non fosse che, improvvisamente, in cadenza o talora nei concertati sfodera un'altra voce, la sua vera voce: morbida, facile, di bel timbro lucente e non privo di bruniture. Peccato che quando la piega nel canto, nel fraseggio, una tensione se ne impossessi stringendo la gola e puntando nel naso. Se invece riuscisse a utilizzare a dovere quella franca emissione che pur possiederebbe avremmo un tenore di grande interesse.

Più noti fra chi guardi con attenzione alle nuove leve sono Gioia Crepaldi, marchesa del Poggio, Michele Patti, cavalier Belfiore, Giulio Mastrototaro, barone di Kelbar, e Matteo D'Apolito, il tesoriere La Rocca. Il soprano vincitore del primo premio nell'ultimo Concorso Voci Verdiane Città di Busseto ha voce sicura, ben educata, spirito d'attrice e l'esperienza potrà certo giovarle per mettere a pieno frutto le sue qualità con sempre maggior naturalezza e disinvoltura. Con lei, Patti forma una coppia ideale anche dal punto di vista scenico, entrambi alti e biondi hanno l'autorevolezza di chi conosce e regge i giochi d'amore; lui, poi, è credibilissimo come ufficiale più dissipato dell'intero reggimento che si fa passare per filosofo e re. Talora l'emissione sembra perdere il giusto fuoco e farsi un po' nasale, ma l'accento è sempre vivo, l'interprete brillante e la voce davvero teatrale. Sembra aver acquisito maggior rotondità il canto di Mastrototaro, che ricordavamo tagliente Ormondo nell'Inganno felice a Pesaro [leggi la recensione] e ritroviamo come impettito Kelbar, tuttavia si nota anche, là dove frasi più ampie succedono al sillabato, una certa precoce oscillazione cui consigliamo di prestar attenzione. La coppia dei caratteri buffi, l'orgoglioso aristocratico e l'ambizioso finanziere borghese, risulta ben assortita con D'Apolito, che ha affinato le sue arti di interprete con una voce più aspra e scura che ben si piega al gretto arrivismo del Tesoriere.

Più presente vocalmente in questa recita il Delmonte di Rino Matafù,ancora una volta irresistibile l'Ivrea di Andrea Schifaudo.

Il pubblico internazionale, con massicce presenze elvetiche germanofone, si diverte e applaude di cuore.

foto Roberto Ricci