Salut à la France

 di Roberta Pedrotti

La concertazione intelligente e sfaccettata di Yves Abel illumina La fille du régiment al Comunale di Bologna. Sulla scena spiccano i protagonisti Hasmik Torosyan e Maxim Mironov.

BOLOGNA, 9 novembre 2018 - La fille du régiment sembra uno di quei titoli che garantiscono il successo senza troppe difficoltà. Breve, agile, ricca di couplet brillanti e con la giusta dose di pagine patetiche, purché si trovino un soprano e un tenore di spirito e sicuri nelle girandole di sovracuti, il gioco è fatto. A Bologna abbiamo Maxim Mironov, che canta benissimo, ha un fraseggio sensibile e intelligente da vero musicista, sulla scena sa essere tenero e ingenuo e ma anche romanticamente risoluto; abbiamo Hasmik Torosyan, capace di apparire energica senza calcare troppo la mano sulla macchietta del maschiaccio, non teme il virtuosismo della parte, che risolve con aplomb e spavaldi sovracuti, valorizzando a dovere la raffinatezza delle pagine più liriche.

Soprattutto, però, abbiamo sul podio Yves Abel, e la sua bacchetta fa la differenza. Non si tratta solo di rendere la superficie leggiadra ed effervescente della commedia francese di Donizetti lasciando emergere i chiaroscuri dei momenti più malinconici; senz'altro Abel imprime il ritmo giusto all'azione, è brillante e all'occorrenza stende morbidissimi tappeti per il canto, ma c'è di più. Il maestro canadese si immerge nelle pieghe della partitura e non fa del suo spirito parigino una spezia aromatica, bensì la sostanza stessa della Fille du régiment, parte integrante della storia dell'opera, dell'opéra comique e dell'operetta francese. Lo avvertiamo, per esempio, già nell'introduzione, con quella preghiera alla Vergine che respira come se venisse da Guillaume Tell, da Les huguenots, come se preludesse a Faust. E poi, però, questa solennità che non arriva mai a esser fuori luogo, si converte in men che non si dica in parodia. Ecco che, allo stesso modo, tutto il gioco di timbri, accenti, dinamiche, fraseggi nelle mani di Abel diviene un sorprendente caleidoscopio di stili, allusioni, contrasti, incastri che spalanca le porte al mondo ironico di Offenbach. Per questo, se il gusto del mascheramento parodistico permea il testo a un livello così profondo e sottile, non v'è alcun bisogno di sottolineare la comicità: nella scena della lezione Marie non stona, passando dalle canzoni militari alle ariette arcadiche non perde la sua naturale musicalità, ma soffre l'artificio di un canto che non va “tout seul” come l'inno del reggimento. Non si avvilisce, così, la comicità, la si rende più intelligente, sfaccettata, intrigante.

Naturalmente, una concertazione di questo livello si sposa a meraviglia con le doti di due protagonisti che sono ottimi musicisti, non solo macchine pirotecniche, e che qui possono liberamente ribadirlo, con franca e squisita ironia, con pathos calibrato alla perfezione.

Il resto del cast si impreziosisce del cameo (reso da grande artista anche nella brevità di poche frasi parlate) di Daniela Mazzucato come Duchessa di Krakentorp; il resto fa da corona adeguatamente, a partire dalla Marchesa di Berkenfield di Claudia Marchi, efficace senza sottolineature superflue, o dal Sulpice di Federico Longhi, forte di un'ottima recitazione francese, per arrivare all'Hortensius esemplare di Nicolò Ceriani, ennesima conferma delle virtù teatrali di un artista capace di dar luce a un personaggio minore lavorando perfino di sottrazione (quante Marchese abbiamo visto affiancate da intendenti sopra le righe che però non lasciavano un egual segno?) e al caporale di Tommaso Caramia, al paesano di Cosimo Gregucci e alla pianista Cristina Giardini. In buona forma Coro e Orchestra.

Meno da dire resta della messa in scena. Si riprende l'allestimento di Emilio Sagi del 2004, ambientato nei bozzetti di Julio Galan intorno alla seconda guerra mondiale (anche se un pizzico di Belle époque fa capolino fra i personaggi altolocati) e con i nobili ospiti della Marchesa tutti ricondotti a località francesizzate dell'area metropolitana (cosa che desta l'ilarità dei bolognesi. L'esercito di Marie sarebbe dunque quello statunitense, ma nell'aggiustare il libretto si fa un po' di confusione: nell'introduzione i “brigants français” diventano “brigants soldats”, un paio di volte “France” si muta in “Amérique”, ma poi tutti cantano sempre il testo consueto, con i riferimenti all'Imperatore, ai Marescialli di Francia, salutata come patria da tutti i militari. Al di là di questa piccola goffaggine di adattamento, ogni cosa fila liscia senza particolari guizzi e invenzioni. Quelli li troviamo tutti nella musica.

Alla fine, successo meritatamente caloroso, che premia una lettura quantomai acuta intelligente e originale del piccolo gioiello parigino di Donizetti.

foto Rocco Casaluci