L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Berlioz all’ultima tappa

 di Francesco Lora

L’acclamata coproduzione dei Troyens, con la regìa di McVicar, è giunta a Vienna ormai con le rughe. Vertiginosa rimane la levatura artistica di Anna Caterina Antonacci, mentre al suo fianco deludono sia la direzione di Alain Altinoglu, sia il deuteragonismo di Joyce DiDonato e Brandon Jovanovich.

VIENNA, 21 ottobre 2018 – Uno spettacolo grande non è in via automatica un grande spettacolo. Per le quattro ore di musica dei Troyens di Berlioz, e per fare le cose in scala con tanta monumentalità, una cordata di teatri massimi ha commissionato un nuovo allestimento a David McVicar per la regìa, Es Devlin per le scene, Moritz Junge per i costumi, Wolfgang Göbbel per le luci e Andrew George (poi Lynne Page) per la coreografia. Accolta in modo trionfale da pubblico e critica, la produzione ha esordito al Covent Garden di Londra (2012) ed è poi passata al Teatro alla Scala di Milano (2014) e all’Opera di San Francisco (2015). Ora che essa ha concluso il proprio iter alla Staatsoper di Vienna, con sei recite dal 14 ottobre al 4 novembre, nello scrivente l’euforia dei primi tempi si è ormai consumata: lo spettacolo si è via via impoverito di qualche dettaglio, ma soprattutto rivela oggi un’intrinseca povertà di idee, ben dissimulata dietro il controllo tecnico del palcoscenico. Quale debba essere il preciso profilo psicologico dei personaggi, l’innovativo o tradizionale orizzonte drammaturgico dell’azione, la mira pedagogica escogitata dal regista in vista del pubblico, tutto ciò risulta viepiù confuso dietro la superficie decorativa. E pericoloso risulta il confronto dello spettacolo di McVicar – regista che altrove ha fatto assai meglio valere l’alta statura artistica, benché un titolo come Les Troyens attiri su di lui un’aspettativa speciale – con altre incisive letture accumulatesi nella memoria del melomane: per esempio quelle di Graham Vick per la Staatsoper di Monaco di Baviera (2001), di Yannis Kokkos per il Théâtre du Châtelet a Parigi (2003) o di Lydia Steier per la Semperoper di Dresda (2017).

Se l’allestimento scenico mostrava le rughe, a Vienna, dal podio non è venuto l’auspicato rimedio. Les Troyens è partitura da affidare ai direttori come un premio, in virtù delle dotte ascendenze, delle forme giganti, del respiro epico e della strumentazione anticonformista. A dispetto di qualche momento prezioso – per esempio l’evidenza data all’impossibilità di comunicare e comprendersi tra Cassandre e Chorèbe, nel loro duetto – Alain Altinoglu si limita invece al solido professionismo: al suo cospetto la scalpitante orchestra della Staatsoper e la sopraffina drammaturgia di Berlioz restituiscono il minimo indispensabile. Un solo interprete dà le vertigini, come Cassandre, ed è la solita Anna Caterina Antonacci: nel perentorio gesto, nel superbo accento, nell’esatta prosodia, nell’inconfondibile timbro, ecco la più completa tra le artiste italiane, la quale eccede assai la pratica dei linguaggi richiesti a una cantante d’opera. Piacerebbe ripetere lo stesso circa Joyce DiDonato nella parte di Didon, che al contrario la trova arida di mezzi e intenzioni, sì da banalizzare l’eroina, la vedova, l’amante e la regina in un carattere qualunque. Se poi si fa appello a due belcantiste per le principali parti femminili, tanto più pare inopportuno affiancar loro l’Énée di Brandon Jovanovich, fibroso tenore dedito ad altro repertorio e affannato nelle salite contraltine. Onesti membri della compagnia stabile sostengono con impegno parti rilevanti: Adam Plachetka (Chorèbe), Jongmin Park (Narbal), Rachel Frenkel (Ascagne), Szilvia Vörös (Anna) e Benjamin Bruns (Hylas). Ma è una benedizione del cielo quando, tra la mediocrità, la canzone di Iopas si fa largo con lo splendore latino della voce di Paolo Fanale.

© Wiener Staatsoper GmbH / Michael Pöhn


 

 

 
 
 

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