Castello d'angoscia

 di Roberta Pedrotti

L'eclatante riscoperta della versione originale del Castello di Kenilworth di Donizetti esige una resa musicale eccellente e la trova nella produzione del festival bergamasco grazie alla presenza di Jessica Pratt, Carmela Remigio, Xabier Anduaga e Stefan Pop diretti da Riccardo Frizza.

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BERGAMO, 24 novembre 2018 - L'appassionato donizettiano, il cultore del belcanto e delle sue primedonne poteva conoscere le testimonianze discografiche di Elisabetta al castello di Kenilworth, nota soprattutto per essere la prima opera dedicata alla dinastia Tudor dal compositore bergamasco. Era infatti il 1829 quando Gaetano, poco più che trentenne, si trova a Napoli, dove l'impresario Domenico Barbaja cerca un successore a Rossini. Proprio quell'anno il Pesarese scrive la sua ultima opera, Guillaume Tell, ma aveva abbandonato già nel 1822 i lidi partenopei dopo una felice, feconda stagione inaugurata nel 1815 proprio sotto l'egida della Regina Vergine, con Elisabetta, regina d'Inghilterra. Il ritorno a un soggetto ispirato alle versioni romanzesche del rapporto fra la sovrana e il suo favorito Robert Dudley conte di Leicester (in questo caso, libretto di Tottola dal romanzo di Scott) sancisce, dunque, più che idealmente un passaggio di consegne, la prosecuzione di un discorso interrotto. Donizetti non raccoglie un testimone fatto di virtuosismo e crescendo, ma uno stimolo all'elaborazione della forma chiusa, allo sviluppo del dramma in musica nella tensione interna al linguaggio del belcanto. Certo, questo è evidente soprattutto se si ascolta quello che, finora, l'appassionato donizettiano non poteva conoscere: Il castello di Kenilworth, la versione originale dell'opera del 1829 senza i rimaneggiamenti attuati per facilitarne la circolazione. Tornano, nella revisione di Giovanni Schiavotti sul tormentato autografo, le impervie tonalità originali, torna la prima stesura della stretta del duetto fra Elisabetta e Leicester, torna affidato a un tenore il perfido Warney reso in seguito baritono, sicché la distribuzione resta quella classica dell'opera seria napoletana, quella di Rossini ma anche di Manfroce (Ecuba) e dello stesso maestro di Donizetti, Giovanni Simone Mayr (Medea in Corinto).

Riscoprire l'aspetto autentico del Castello di Kenilworth rivela come sia le radici del teatro donizettiano, sia la sua repentina evoluzione in una drammaturgia insieme intima e dinamica, sviluppata soprattutto per duetti verso un finale centrale in cui i protagonisti si scontrano in un quartetto senza l'intervento pubblico del coro. Questo fa sentire il suo peso soprattutto nelle apparizioni ufficiali della sovrana, e lo fa con una pompa quasi soffocante, a rimarcare quel peso della corona che sarà poi al centro di opere come Roberto Devereux e Marin Faliero. Infatti il primo atto si chiude con una cavatina di sortita di Elisabetta cui il sopraggiungere festoso dei sudditi e lo sviluppo della coda nega il trionfo solistico completo, esattamente al pari della marcia che segue, in Norma, “Ah! bello a me ritorna”. Il vero protagonista en titre, d'altra parte, non era già la regina, ma proprio il Castello inteso anche metaforicamente come labirinto psicologico in cui si consuma lo scontro feroce fra i personaggi. Non c'è scampo, né il lieto fine redime uno dei soggetti più angoscianti che si possano immaginare, tale da offrire a Donizetti un'occasione impareggiabile per sondare gli abissi più sgradevoli dell'animo umano. Elisabetta è attratta da Leicester, visitandolo lo lusinga e scatena una perversa reazione a catena che ha per prima vittima Amelia, la sposa segreta del conte, stretta fra un consorte che per ambizione la nasconde, la imprigiona, la disconosce e la insulta e uno spasimante che attenta più volte alla sua vita. Inevitabile, per la pur temperamentosa Amalia, scivolare in una crisi nervosa con la celebre, straniante cantilena dell'aria “Par che mi dica ancora”, con l'accompagnamento della glassharmonica. Il lieto fine arriverà, ma senza che una riconciliazione, un pentimento sia veramente elaborato: la clemenza di Elisabetta sancisce ufficialmente l'unione di Amelia e Leicester, non sana le ferite della menzogna e dell'ambizione. Come in Così fan tutte, la ricomposizione conclusiva lascia in realtà troppe questioni in sospeso ammantandosi d'ambiguità mentre la regina abbandona il Castello.

Donizetti, abbiamo detto, mantiene un forte legame di continuità con la tradizione dell'opera seria napoletana, ma la rinnova da par suo, fin da una cavatina di sortita estesissima per Leicester, con una vera e propria doppia cabaletta inerpicata a valorizzare in sommo grado l'estensione contraltina del primo interprete Giovanni David. E, pure, il disegno melodico, il sobbalzo ritmico del sorprendente quartetto del finale II, l'incedere delle strette suggeriscono libertà, asimmetrie, piccole sregolatezze geniali che possono mettere a dura prova gli interpreti, ma che per fortuna Riccardo Frizza sul podio controlla e valorizza con cura appassionata, mantenendo il giusto equilibrio, sollevando l'atmosfera claustrofobica dei tradimenti, dei silenzi e dei sospetti tesi fino al delirio. Così, Carmela Remigio ha buon gioco nel fare di Amelia non solo una candida vittima, ma una donna in carne e ossa, che scandisce un volitivo canto d'agilità controbattendo alle profferte e alle minacce di Warney, affermando la forza del suo amore di fronte alla meschinità di Leicester. Con arte e intelligenza musicale rende, altresì, il confronto con Elisabetta e la scena di pazzia momenti di vero teatro. Si contrappone esattamente all'ambivalenza della sovrana, nella cui coloratura astrale vive il contrasto fra la sublime virtù regale e il tormento nascosto della donna, espresso spesso con frasi più liriche e discese al registro centrale quando non grave, nei momenti d'ira. Jessica Pratt le offre un canto aristocratico, prezioso e lucente nel virtuosismo estremo, nella celebrazione simbolica della clemenza e nei ripiegamenti amorosi più delicati: traspare la fragilità, un'inquieta stanchezza senza che la figura di Elisabetta risulti sminuita nei suoi tratti fieri e imperiosi.

A una così riuscita complementarietà fra le primedonne corrisponde un perfetto equilibrio fra i due tenori. Stefan Pop incarna Warney con tratti torvi, più che subdoli, esprimendo con violenza un conflitto interiore da cui scaturiscono continui piani omicidi e tuttavia non trascende mai da una misura stilisticamente ben definita e vince la sfida di un personaggio totalmente negativo. La tessitura baritenorile non gli crea problemi e la grande aria con coro del secondo atto ottiene meritato successo. Nondimeno desta ammirazione quella che si può considerare la vera scommessa di questa locandina: il ventitreenne Xabier Anduaga chiamato a interpretare la parte di Leicester, scritta per Giovanni David, mitico primo interprete rossiniano. La coloratura non è più quella che esigeva il pesarese, ma la tessitura è acutissima, l'impegno intenso e Anduaga non si lascia intimorire, forte sicuramente di una natura privilegiata, ma anche e soprattutto di una sicurezza, di una solidità tecnica e musicale che non possono non lasciare a bocca aperta in un tale debutto. Se Warney è, poi, ufficialmente il cattivo della situazione, è difficile immaginare un personaggio più sgradevole, vile, insensibile e ipocrita del favorito di Elisabetta sposo di Amelia: il giovanissimo tenore basco non nobilita l'indifendibile, ma nemmeno calca troppo la mano, connotando invece parole e azioni con una sorta di noncurante narcisismo perfettamente funzionale a definire l'incosciente naturalezza dell'egocentrico. Merito, questo, anche della regista Maria Pilar Pérez Aspa, che evidentemente aiuta con la sua esperienza d'attrice a caratterizzare puntualmente tutti i personaggi e i loro rapporti, mentre nel complesso l'allestimento (scene minimaliste di Angelo Sala, costumi assai belli di Ursula Patzak e luci efficaci di Fiammetta Baldiserri) non lascia il segno, raccontando con discrezione e qualche ambizione simbolica.

Una pioggia di fiori e l'abbraccio in proscenio fra Pratt e Remigio consacrano il successo finale, che coinvolge anche il Lambourne di Dario Russo (fedele ma fortunatamente inefficace sicario di Warney), la devota e provvidenziale Fanny di Federica Vitali, il coro preparato da Fabio Tartari già apprezzato nelle sere precedenti e la pregevole Orchestra Donizetti Opera. Si chiude in bellezza uno spettacolo in cui l'eccellenza musicale singola si traduce innanzitutto in gioco di squadra al servizio di un'opera da riscoprire con il fiato sospeso. Non sarà un caso che nel turbinare angosciante del dramma sia l'oasi singolarissima del singhiozzante quartetto "Freme! Ondeggia irresoluto" a imprimersi nella memoria con l'ansia sospesa di voci eccellenti.

 

foto Gianfranco Rota