Traviata da riflettere

 di Antonino Trotta

Si conferma eterno lo storico allestimento del capolavoro verdiano, noto come “La Traviata degli specchi”, ora in scena al Teatro Regio di Torino. Successo personale per la splendida Violetta di Maria Grazia Schiavo.

Torino, 14 Dicembre 2018 – Quanta poesia in un oggetto tanto comune, appeso a una parete, inerte. Uno specchio non svela mai la realtà in senso univoco, dipinge piuttosto l’immagine di un mondo tutto da decifrare, offrendo la possibilità di mirare con una prospettiva differente ciò che altrimenti sfuggirebbe all’attenzione dello sguardo. C’è chi vi passa ore dinnanzi e chi ne sfugge il riflesso, per desiderio o per paura di incrociare quello sconosciuto di cui in fondo si ha consapevolezza. Perché uno specchio può alterare la percezione del tangibile, ingannare la mente e gli occhi, ma non creare illusioni o mostrare qualcosa diverso da quanto già esista. Tutto è a discrezione del fruitore. Così nella meravigliosa “Traviata degli specchi”, ora in scena al Teatro Regio di Torino, la terra abbraccia il cielo al pari di un romantico tramonto, intimità e pubblicità si confondono e si fraintendono, si insegue ogni dettaglio, ogni sfumatura, nell’anima e sul volto, di quelle vite alla mercé dell’opinione altrui. Si scruta comodamente la storia dall’esterno aiutati da quello specchio che fa quasi da lente di ingrandimento; poi ci si trasforma in parte dell’azione e a ribaltarsi non sarà più solo lo spazio, ma il soggetto della riflessione stessa, a ogni livello semantico (e chi scrive si augura che, una volte per tutte, il pubblico possa rendersi conto, guardandosi allo specchio, di quanto scortese sia la diaspora allo scadere dell’accordo finale).

Inutile ribadire che la poetica di questo spettacolo immortale – ha ormai ben ventisei anni – risiede interamente nella splendida ideazione scenica di Josef Svoboda (ripresa da Benito Leonori), sublimazione del concetto di teatro come specchio della società. Basterebbe infatti soffermarsi sulla bellezza dei tappeti/arazzi che fanno da sfondo alla narrazione per trarre da questa geniale scenografia un appagamento tutto estetico. Ma ci si può spingere oltre le confortanti parole del dialogo visivo e carpire quanto più recondito si cela nella superfice riflettente, simbolo di indeterminazione, erotismo, introspezione. Spiace dunque non trovare in Henning Brockhaus il guizzo efficace nel valorizzare, con arguzia e responsabilità, l’opulenza di un tale supporto drammaturgico. Se infatti l’interazione dei personaggi con lo specchio sembra in alcuni momenti ispirare una lettura ben argomentata del disegno di Svoboda (nel duetto del primo atto, Violetta e Alfredo giacciono a terra con le spalle al pubblico come se cercassero di preservare l’intimità di una storia che però continua a rimanere sotto gli occhi di tutti, o ancora, in quello con Germont, ella intercetta lo sguardo del suocero nel suo riflesso, quasi lo specchio facesse da filtro alla realtà), l’impostazione complessiva dello spettacolo, specie nel primo e nel terzo quadro, stona con la spiccata raffinatezza del contesto. Violetta è assimilabile a un’etera greca, è una “lorette poitrinaire” (come riportato nel bel saggio di Emilio Sala contenuto nel libretto), cioè una donna che dell’avvenenza ha fatto il proprio stato sociale e che vive in un ambiente aristocratico, lussuoso, colto, dunque poco credibile negli atteggiamenti grossolani che la regia a volte chiede per ribadire, con sforzo inutile, che si tratta di una prostituta (è credibile che Violetta Valery, da bambina capricciosa, lanci per aria le scarpe all’inizio della terrificante scena?). E pur trascurando Flora a cavallo del Marchese – vergandolo con un frustino – prima che i convitati si impegnino in un trenino intorno ai tavoli da gioco (vagheggiando un’atmosfera da cine-panettone), rimangono aperti i dubbi su soluzioni meno prevedibili ma prive di una vera coerenza: Alfredo che rilegge la lettera dell’amata durante il preludio, i danzatori durante il primo duetto (quando in realtà i due innamorati rimangono soli) sovrapponendosi al bellissimo collage di ritratti ottocenteschi, i convitati della protagonista che, nell’oscurità di una luce sinistra a cura dello stesso regista, la accerchiano con gestualità violente e inquisitorie mentre cantano versi di ebbro commiato «Si ridesta in ciel l’aurora» (va bene la denuncia dell’ipocrisia borghese, come la musica stessa suggerisce, ma nei salotti francesi i colpi bassi venivano offerti insieme a tè e pasticcini). Apprezzato invece, specie dal pubblico, l’inserimento di ballerini di flamenco nelle due celebri parentesi corali (sempre eccellente la prova del Coro del Teatro Regio di Torino, istruito dal maestro Andrea Secchi).

Ben intendendo che La traviata è un’opera in cui le forti passioni sono mediate dalle buone maniere, Donato Renzetti sul podio propone una concertazione distesa e riflessiva, scevra da ogni ipertrofia sonora (bello il Brindisi, per fortuna distante da una esecuzione da concerto di capodanno) e attenta piuttosto a sottolineare i preziosi madrigalismi strumentali. Sebbene il lessico ritmico e dinamico sia forbito e il sostegno del palcoscenico generoso ed equilibrato, lo stacco di tempi molto mesti nel secondo e nel terzo atto (nelle strette non è piacevole il cicaleccio dei fiati) rischia di penalizzare il risultato complessivo in termini di incisività drammatica e di smussare troppo le febbrili tensioni insite nella partitura.

Nella prima compagnia vocale si impone la splendida Violetta di Maria Grazia Schiavo. Già apprezzata sul palcoscenico sabaudo per le recenti Susanna e Donna Anna, la Schiavo conferma che per cantare La traviata non occorrono tre soprani ma uno che sappia approfondire il testo e scolpire a regola d’arte la parola scenica, fine e non mezzo del canto stesso. Che si tratti della scalpitante coloratura del primo atto o del fraseggio sofferente e allucinato dell’ultimo, il raffinato senso della misura, la linea vocale cristallina e l’emissione morbida e controllata – impreziosita da bellissime filature e messe di voce – sostengono il soprano partenopeo nella costruzione di un personaggio che rinvigorisce di battuta in battuta a mezzo di un’accentazione sempre magnetica, sublimata nel commovente «Addio del passato», capolavoro di carisma interpretativo ed eleganza belcantista.

Peccato non poter accogliere con lo stesso entusiasmo l’Alfredo di Dmytro Popov, che a dire il vero avrebbe molto da lavorare sull’emissione e sull’immascheramento corretto dei suoni. Se già il personaggio in sé non regala particolari emozioni, nonostante sia affrontato scenicamente con convezione, la voce tubata e stentorea preclude ogni plasticità nella modellazione vocale. La cabaletta del secondo atto («O mio rimorso! O infamia!»), infatti, cade nel gelo più assoluto.

Al di là di qualche asprezza in acuto, Giovanni Meoni affronta Giorgio Germont con fare altero e cinico. Molto apprezzabile per l’incisività del fraseggio e l’espressività delle dinamiche con cui risolve il ruolo (sebbene nella scena solistica non si possa elogiare la serenità della relazione con orchestra e direttore), riceve alla fine del cantabile «Di Provenza il mare, il suol» un caloroso riscontro del pubblico.

Completano correttamente il cast Elena Traversi (eccentrica Flora), Ashley Milanese (dolente Annina), Luca Casalin (garbatissimo Gastone), Paolo Maria Orecchia (barone Douphol), Dario Giorgelè (Il marchese D’Obigny), Mattia Denti (cavernoso dottor Grenvil), Alejandro Escobar (Giuseppe), Marco Sportelli (Un domestico di Flora) e Giuseppe Capoferri (Un commissionario).

Grande successo e platea finalmente gremita, come da qualche mese non si vedeva al Regio.