Déjà vu, déjà entendu

 di Giuseppe Guggino

Con ben dieci recite del dimenticabilissimo allestimento della Bohème pucciniana già messo in scena nel 2015 il Teatro Massimo consegna agli annali una delle stagioni più interlocutorie della parabola artistica: un’occasione mancata nell’anno di Palermo Capitale della Cultura.

Leggi la recensione, a cura di Andrea R. G. Pedrotti, anche della recita con il Rodolfo di Stefan Pop Palermo, La bohème, 19/12/2018

Palermo, 13 dicembre 2018 - È stata una stagione scivolata un poco sotto silenzio quella del Teatro Massimo, proprio nell’anno di Palermo Capitale della Cultura, inauguratasi irritualmente con uno spettacolo – il Guillaume Tell allestito da Michieletto – non prodotto in house e parimenti conclusasi all’insegna del déjà vu, con la ripresa di quella Bohéme di Mario Pontiggia, già vista e rivista alla noia fra Firenze, Napoli e Bilbao. Avevamo sperato di sbagliarci quando nel 2015 avevamo pronosticato la probabile futura “inflizione” di uno spettacolo d’inanità teatrale al limite del risibile (e talvolta anche oltre), ma purtroppo così non è andata. E quindi siamo precipitati nuovamente in una soffitta disegnata secondo gli stilemi del liberty fin de siècle, apparentemente ipertradizionale, ma che tradisce costantemente il libretto del tandem Illica-Giacosa. Il perché dei borghesi, abbigliati à la page, e che nel quarto atto vivono piuttosto agiatamente, siano costretti a impegnare una vecchia zimarra è cosa che non riusciremo a spiegarci neanche alla trecentesima inflizione. Così come mai riusciremo a tollerare quel secondo atto, tutto schiacciato in proscenio da un gigantesco circolare Momus al centro della scena che vincola la gestione delle masse alle canoniche entrate da destra e sinistra, in fila per due, con gli inevitabili resti di quattro: sì, quelle quattro charmeuses che con quel continuo e fastidioso agitare di crinoline da can-can, qualora si stilasse un abbecedario delle cose da non fare a teatro, vi entrerebbero di diritto.

Inutile infierire anche sulla recitazione dei solisti, giacché lo hanno fatto già altri colleghi. Angelica Dettori nella ripresa dello spettacolo si mantiene piuttosto fedele alla regia originaria che quanto a pathos potremmo dire eufemisticamente sta a quella di Graham Vick vista a Bologna a inizio 2018 più o meno come la sapidità del brodo da dado sta al tartufo d’Alba.

Le cose vanno meglio sul versante musicale, ma neanche poi troppo, perché con Daniel Oren sul podio si passa al déjà entendu del Puccini per nulla analitico, almeno in questa occasione privato di sonorità debordanti ed eseguito con una certa duttilità da Orchestra e Coro in buona forma.

Nel cast si segnalano le buone prove di Jessica Nuccio e Christian Senn rispettivamente Musetta e Schaunard, mentre qualche delusione di troppo viene dalla Mimì di Valeria Sepe ed, in misura maggiore, dal Rodolfo di Matthew Polenzani, di poca ampiezza e dal gusto più volte incespicante nel singhiozzo o nel mordente della speranza: sì, quella di non dover mai più ascoltare quell’abbellimento (si fa per dire) non scritto sul si bemolle della "Gelida manina" che fa molto effetto Al Bano. Nello sconforto generale, completano la distribuzione il Colline di Marko Mimica, il Marcello di Vincenzo Taormina e Angelo Nardinocchi nei due ruoli da caratterista. E la domanda fa inevitabilmente capolino a fine soirée: perché? La risposta, dopo lo smarrimento di un vago orizzonte artistico, prima ancora del Direttore artistico, perso per strada nel corso della stagione, sarà bene che la trovino e alla svelta.