L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Nebbia e poesia

 di Roberta Pedrotti

Spicca l'arte di Alexander Kobrin, solista al pianoforte, nell'inaugurazione della stagione dell'Orchestra Filarmonica di Bologna, mentre desta qualche perplessità la bacchetta di Rory Macdonald.

BOLOGNA, 29 gennaio 2018 - Anche quest'anno la stagione della Filarmonica di Bologna (già Filarmonica del Teatro Comunale) è impreziosita dalla presenza di solisti ospiti d'indubbio interesse. Fra questi spicca Alexander Kobrin, il pianista moscovita già applaudito a Bologna, dove aveva debuttato giovanissimo vincitore del Busoni una ventina d'anni fa, la scorsa estate in un recital per il festival Pianofortissimo [leggi].

Oggi lo ascoltiamo per la prima volta in città in un concerto con orchestra e ritroviamo il fascino di un artista fra i più intriganti del panorama attuale, seppur alieno per temperamento ai meccanismo dello star system, cui preferisce nettamente gli stimoli dell'attività didattica. Dopo l'ampia introduzione orchestrale del Concerto n. 23 in La maggiore K 488 di Mozart, Kobrin s'insinua con un tocco che a tutta prima appare perfino discreto nella sua morbidezza raffinata. Ma nell'esatta misura di questo suono così caldo e ben tornito si scoprono via via chiaroscuri tanto delicati quanto lucidi e incisivi. Un fraseggio poetico che ricrea l'idea del classicismo nel suo respiro sentimentale ed espressivo, nella sua leggiadria mai leziosa, dipanando con bel gusto lo slancio dinamico del primo movimento, con una cadenza pensosa e pacata, come l'introspezione sincera dell'Adagio centrale e il brillante Allegro assai conclusivo. I movimenti si concatenano con continuità logica interna declinando a dovere contrasti e gradazioni d'espressione.

La qualità di Kobrin si riconferma nell'incanto liquido del bis, il Primo Studio in La bemolle maggiore op. 25 di Chopin, un unico flusso in cui le note paiono ciottoli minuti scagliati con precisione in uno specchio d'acqua: precise, definite, esatte nella traiettoria, da cui si dipartono cicli ondosi mobili e perfetti che s'intersecano e si increspano fra loro, con matematica poesia, inafferrabile bellezza.

Purtroppo alla qualità del solista non si sposa un'eguale risposta della bacchetta di Rory Macdonald, che ammanisce un Mozart appesantito e grigiastro, privo, nonostante l'organico calibrato al'uopo, del nitore necessario, come dell'auspicabile sintonia poetica con il pianista.

Non convince nemmeno la lettura della monumentale e complessa Quinta sinfonia di Mahler, di cui Macdonald non lascia intendere una lettura personale ben definita, quasi si accontentasse di scandire un'esecuzione asciutta ed essenziale, senza che questa essenzialità abbia granché da svelare, né possa avvalersi di una precisione cristallina, di un'esatta relazione fra sezioni e piani sonori. Specie nei fiati – trombe e clarinetti in primis – si ravvisa una certa difficoltà a rispondere alle difficoltà imposte ed esposte dalla partitura mahleriana.

Il concerto è tuttavia un successo, segno dell'affetto del pubblico della Filarmonica per l'orchestra di casa al Teatro Manzoni.


 

 

 
 
 

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