Un racconto di acqua e di fuoco

 di Alberto Ponti

 Rai NuovaMusica 2018 si conclude con una prima italiana di Dusapin, seguita da opere dei suoi maestri Donatoni e Xenakis

TORINO, 02 febbraio 2018 - Gli applausi scroscianti della platea gremita dopo Jonchaies (1977), lavoro per più di 100 esecutori di Iannis Xenakis (1922-2001) eseguito come prova di forza dall’Orchestra Sinfonica Nazionale al gran completo al termine del terzo e ultimo appuntamento di Rai NuovaMusica 2018, hanno coronato venerdì 2 febbraio una rassegna all’insegna di un crescente, tangibile entusiasmo. La musica contemporanea è la colonna sonora della nostra epoca e, se il grande repertorio da Bach alla prima metà del Novecento sopravvive in virtù dell’universalità dei geni del passato, capaci di parlare ancora in maniera attuale all’uomo di oggi, i capolavori degli ultimi decenni, accanto all’autonomo valore artistico, coinvolgono e affascinano per la vicinanza al mondo che ne ha visto la nascita. Nessuno di noi può dire di avere provato sulla propria pelle il terrore o la speranza evocata dalla presenza di Napoleone, che imperversava sull’Europa al momento in cui Beethoven componeva le sue sinfonie, ma quasi tutti abbiamo vissuto le inquietudini degli anni della guerra fredda e della società postmoderna, le stesse condivise dall’uomo Xenakis durante la sua vita.

La partitura dell’autore greco-francese, interpretata con magnifica passionalità e coinvolgimento totale da Pascal Rophé, travolge l’ascoltatore con l’energia elementare di un sommovimento tellurico, sebbene sia il frutto di precise ricerche sulla natura del suono iniziate da Xenakis nel secondo dopoguerra, forte della sua formazione speculativa e scientifica. A colpire in Jonchaies, ispirata alla natura delle aree palustri, è il perfetto connubio tra rigore costruttivo e ispirazione timbrica, in un’atmosfera di straripante, panica vitalità.

La serata si era aperta con la prima esecuzione italiana del recentissimo doppio concerto per violino, violoncello e orchestra At Swim-Two-Birds (2017) di Pascal Dusapin (1955), con solisti d’eccezione quali Viktoria Mullova e Matthew Barley, per cui l’opera è stata creata. La citazione del titolo del romanzo sperimentale di Flann O’Brien non deve trarre in inganno. Ambizioso affresco di carattere lirico e contemplativo, composto da due movimenti che si fondono in un’unica arcata, il concerto si accende qua e là di improvvisi bagliori, tosto destinati a svanire su una campitura sinfonica di liquida distensione, nutrita di reminescenze debussiane, all’interno di un discorso dall’eloquio sommesso e raffinato, caratterizzato dalla calibrata integrazione delle due voci principali con gli altri strumenti. L’intesa della coppia Mullova/Barley è totale, con i passi più virtuosistici spesso giocati in piano e pianissimo sul soffio di un suono appena percettibile ma sempre adamantino e ben articolato, con facilità e varietà di intonazione vertiginosa in grado di rendere al meglio le cangianti sfumature della scrittura del musicista francese.

Incorniciato al centro del programma, Fire (In Cauda IV) (1998) di Franco Donatoni (1927-2000), maestro di Dusapin al pari di Xenakis, rivela il tratto più originale e sottilmente sarcastico della sua vena creativa che lo rende uno dei massimi protagonisti, non solo italiani, della scena compositiva sul finire del XX secolo. Rophé si destreggia con autorevole maestria tra i meandri di un brano denso e complesso con quattro voci femminili soliste (le ottime Lucia Conte, Lee Go Eun, Keumji Park e Vittoria Vimercati), impegnate a intonare versi di Jack Beeching accanto a un’estesa orchestra. La desolata riflessione sulla morte e sulla precarietà di ogni esistenza umana, esente tuttavia da ogni tragico compiacimento, si alterna nella partitura con un marcato gusto per il contrasto dialettico e la citazione (dal Webern espressionista fino a un imprevedibile Chopin), tra momenti di enfasi angosciante ed oasi di distillata atarassia. Dramma immaginato e dramma vissuto (Donatoni, di salute malferma, fu colpito nello stesso 1998 da un ictus dal quale non si riprese più) si uniscono nella toccante perorazione finale, in un estinguersi quasi improvviso intriso di alta poesia.