Musica regale

 di Francesco Lora

Château de Versailles Spectacles ha appena anticipato al pubblico la nuova stagione 2018-19. «L’Ape musicale» coglie l’occasione per riferire di tre concerti recenti: un passo falso quello diretto da García Alarcón con tre celebri grands-motets di Lully, ma garantito da antico successo quello del King’s Consort sull’incoronazione di Giorgio II di Hannover, ed eccellente quello dedicato al Sei-Settecento francese da Raphaël Pichon (con uno Stéphane Degout al di sopra d’ogni lode).

VERSAILLES, 16-17 gennaio e 6 febbraio – Lo si è già scritto in queste pagine: se c’è un cartellone europeo oggi di riferimento per la musica del Sei-Settecento, in senso qualitativo nonché quantitativo, esso consiste in quello di Château de Versailles Spectacles, con le sue decine annue di recite e concerti nei numerosi spazi dell’antica dimora dei re di Francia. La nuova stagione 2018-19 è appena stata anticipata al pubblico [vedi il programma preliminare]: beato chi voglia mettere in agenda un Beggar’s Opera di Pepusch, una Finta pazza di Sacrati, un Tarare di Salieri o uno dei tanti concerti tenuti dalle vedettes della musica nell’età del basso continuo. A Versailles principiano o culminano difatti le tournée di grandi interpreti, con programmi di ragionato valore musicologico e spesso calibrati su storia e valore evocativo del luogo.

La sostanza ha così la meglio anche ove, per ragioni commerciali, il packaging dell’evento ridondi di didascalie sensazionalistiche e in sé extra-musicali. È il caso del programma varato il 17 gennaio nell’Opera reale e battezzato – come il corrispondente e recentissimo CD – col sulfureo titolo di Enfers!. Lo formano musiche ecletticamente attinte dalla produzione teatrale e sacra degli eroi del barocco musicale francese, e in particolare dalla caligine di scene infernali – un topos ineludibile, nelle tragédies lyriques, fino ai Troyens di Berlioz – e di messe funebri. Si ascoltano pagine da Charpentier (Messa a otto voci), Gilles (Requiem), Gluck (Armide, Iphigénie en Tauride e Orphée et Eurydice), Lalande (Dies iræ), Lully (Armide), Rebel (Les éléments) e in particolare Rameau (Les Boréades, Castor et Pollux, Dardanus, Hippolyte et Aricie, Les Indes galantes, Les surprises de l’Amour, Le temple de la Gloire e Zoroastre, fino alla Messe de Requiem elaborata a partire da pagine del citato Castor et Pollux).

Pretestuosetta l’articolazione in cinque parti – tante quante gli atti di una tragédie lyrique regolamentare – officiate da un sacerdote-baritono-tragédien e intitolate ai luoghi dell’antica messa funebre romana: Introito, Kyrie, Gaduale, Sequenza e Offertorio, Comunione. Superba, ai fatti, la concatenazione di pagine scelte: una dotta enciclopedia, trasversale attraverso i generi, circa le risorse musicali retoriche e tecniche da Luigi XIV a Luigi XVI. È la premessa a un’esecuzione eccellente. Misurata ma incisiva, espressiva ma lucida, compunta ma fremente la direzione di Raphaël Pichon, specialista di nuova generazione in questo repertorio e degno di una più attenta considerazione italiana. Tanto vaporosi quanto affilati i suoi professori d’orchestra e i suoi artisti del coro, tutti radunati sotto l’unico nome di Pygmalion: in faccia alla concorrenza internazionale risultano addirittura insolenti per esattezza d’intonazione e generosità di risonanza.

I soli dieci cantori fanno per trenta, e si fanno inoltre carico di onerose pagine solistiche. Al luminoso soprano Eugénie Lefebvre tocca per esempio il capitale monologo nell’atto II dell’Armide lulliana; allo haute-contre Clément Debieuvre, al tenore Olivier Coiffet e al basso Arnaud Richard districarsi tra le settime diminuite delle Parche in Hippolyte et Aricie; al tenore Martial Pauliat svettare nell’alta tessitura dello Chevalier Danois nell’Armide gluckiana. Al di sopra d’ogni lode è infine il baritono sul quale il progetto s’incardina. Privilegiato dalla lingua madre ma ancor più da personale acume, Stéphane Degout dà una lectio magistralis di prosodia teatrale francese, e fa sembrare ovvia l’eccellenza dello strumento che la veicola: un canto facile e naturale in estensione ed emissione, traboccante di armonici, sfacciato per ampiezza, ispirato nell’accento, sorprendente per versatilità stilistica. L’imminente debutto nel Don Carlos all’Opéra di Lione reclama dunque attenzione rinnovata.

Legato alla discografia storica è invece il programma riproposto il 17 gennaio nella Cappella reale: dopo diciassette anni dalla consegna al CD, esso costituisce tuttora il più vivido biglietto da visita di Robert King e del suo King’s Consort. È incentrato su una plausibile ricostruzione dell’apparato musicale nell’incoronazione di Giorgio II di Hannover come sovrano del Regno Unito (1727): spiccano i quattro celebri anthems (inni sacri) composti ad hoc da Händel, ma intorno vi sono collocati brani della tradizione cinque-secentesca, dovuti a Tallis, Gibbons, Farmer, Blow e Purcell. Forbitezza e idiomatismo stilistici rimangono fuori discussione; fanno anzi scuola nell’incedere insieme elegante e mordente. Spiacciono soltanto l’economica riduzione di orchestra e coro a un numero modesto di elementi (quattordici archi totali contro una fanfara di sei trombe), e – in Händel – la recidiva ed errata assegnazione a tutta la cantoria di frasi destinate a voci soliste.

Un passo falso, al contrario, in occasione del concerto del 6 febbraio nella stessa Cappella. Intrinsecamente legati a Versailles, con relativo aumento di responsabilità, sono infatti i tre celebri grands-motets di Lully in programma: De profundis, Dies iræ e Te Deum. Ma inadeguato a tali partiture, che pretendono alta specializzazione stilistica, si mostra il direttore Leonardo García Alarcón. Lo si vede tutto concentrato sulla propria immagine: alza con ostentazione occhi e braccia al cielo, come per raccogliere l’unzione del Dio degli eserciti sul proprio lavoro. Nel frattempo, l’orchestra Millenium e il Chœur de chambre di Namur – quest’ultimo inappuntabile, due giorni dopo, in concerto con Christophe Rousset alla Philharmonie di Parigi – rimangono gregge smarrito e senza guida, procedendo con suono timido e fraseggi confusi, mentre un imbarazzante dilettantismo dilaga nel comparto maschile delle voci soliste. Un approccio da non incoraggiare.