La responsabilità di un testamento

 di Francesco Lora

L’Orchestra Mozart dichiara il suo amore per la vita nella coppia di concerti sinfonici eseguiti prima a Lugano, indi a Bologna. Simbolico e singolare il rapporto con Bernard Haitink, la cui poetica è ben differente da quella di Claudio Abbado.

BOLOGNA, 6 e 8 aprile 2018 -  Si fa in fretta a scrivere che l’Orchestra Mozart è oggi più viva che mai. Al contrario, il suo amore per la vita è una lotta per la sopravvivenza. Non c’è più Claudio Abbado a perpetuare il particolare indirizzo artistico fissato intorno al classicismo viennese, e non c’è più il suo nome ad attrarre le montagne di denaro necessarie a pochi ma splendidi concerti per anno. A rendere la Mozart terribile macchina da guerra erano prime parti come il violino di Giuliano Carmignola, la viola di Wolfram Christ, il violoncello di Enrico Bronzi, il flauto di Jacques Zoon, il clarinetto di Alessandro Carbonare o il corno di Alessio Allegrini. Ma i nostalgici dicono che l’esperienza è irripetibile, i calendari mostrano di essere già troppo fitti, i maliziosi dicono che i soldi non bastano più. Dunque la Mozart è nata fiammeggiante nel 2004, è tracollata nel 2013 sul tramonto di Abbado ed è poi caparbiamente risorta all’inizio del 2017. Si è da allora sorretta sulla base istituzionale della materna Bologna, e si è procurata a Lugano il necessario rinforzo economico e logistico. Ha stretto un rapporto privilegiato, anzi esclusivo, col carismatico Bernard Haitink: il direttore – classe 1929 – che era amichevolmente subentrato ad Abbado in quell’estremo concerto del 2013. Quel che più conta dire, la Mozart è oggi un’altra: a costituirla in corpo e anima è ora non tanto il lusso dei suoi membri – il donchisciottismo di Lorenza Borrani e Danusha Waskiewicz, tornate ai primi leggii tra i violini e le viole, è la signorile eccezione che conferma la regola e fa bello il mondo – bensì l’ostinazione di quelli che ne erano stati, sotto Abbado, i giovani elementi di contorno ai grandi nomi. Loro alla Mozart ci hanno creduto, e anche ora, fatti adulti, assorbiti in compagini insigni o lanciati in carriere solistiche, la vogliono ricollocare dritta sui suoi piedi.

Non senza sudore. Dopo i concerti sinfonici del 1° e 4 aprile a Lugano, la Mozart e Haitink hanno replicato a Bologna dal 6 all’8; ma hanno trovato un Teatro Manzoni riempito a fatica, malgrado biglietti venduti per tempo e a prezzi equi: spariti soprattutto i fedelissimi itineranti che gettavano fiori dalle balconate, come se quegli strumentisti, perso il padre nobile, non fossero più della famiglia. Eppure il discorso è stato ripreso proprio là ove si era interrotto. Va da sé che Haitink rechi una poetica differente – forse più profonda, certo meno moderna – rispetto a quella di Abbado. Cosa palese nell’esecuzione delle due ultime sinfonie di Schubert. La “Grande” sembra trarre il progetto interpretativo da un’esasperata realizzazione del titolo (posticcio): incedere quasi paralizzato nella lentezza, impasti plumbei fino all’impenetrabilità, fraseggi rigorosi le cui monumentali arcate – tanto più per musicisti giovani, cresciuti nella vivacità della filologia – sono ardue da reggere senza vacillazioni. L’“Incompiuta” trova un’attuazione gemella: tetra, poderosa, indugiante; ma procede col dominio tecnico là messo a repentaglio, ossia premiando le qualità dell’orchestra anziché sfidandole. Problemi intrinseci di linguaggio comune nelle composizioni di Mozart; nel Concerto per pianoforte n. 25, indi in quello per violino n. 5, i solisti Paul Lewis e Vilde Frang paiono dialogare in antitesi col podio: esatto, rotondo, elegante e sintetico il primo; evanescente fino all’inconsistenza retorica la seconda. Ma nella Sinfonia n. 41 “Jupiter” ha luogo la somma tra la datata, titanica eppur sanissima idea d’oro massiccio di Haitink e un’Orchestra Mozart che si direbbe suonare con la trasfigurata e commovente responsabilità di un testamento, di un addio, come se quello fosse l’ultimo concerto. Non deve esserlo.

foto Marco Caselli Nirmal