Il pianista veloce

 di Alberto Spano

Debutta al Bologna Festival il ventiseienne pluripremiato pianista russo Dmitry Shishkin, che esprime, fra Scriabin e Čajkovskij, una visione molto sintetica della musica, con una netta propensione ai tempi rapidi e alle sonorità contenute.

BOLOGNA, 9 maggio 2018 – Debutto al Bologna Festival nella sezione “Grandi Interpreti” al Teatro Manzoni per il ventiseienne pianista Dmitry Shishkin, fresco vincitore del Concorso pianistico “Top of the World” di Tromsø, in Norvegia, che nelle passate edizioni aveva premiato Georgy Tchaidze, Alberto Nosé e Mariangela Vacatello. E, soprattutto, sesto premio al Concorso Chopin di Varsavia nel 2015 e terzo Premio al Busoni del 2013. Un grande talento musicale sotto osservazione, nativo di Chelyabinsk negli Urali, ex bambino prodigio (a tre anni il suo primo concerto), allievo di Eliso Virsaladze, la grande pianista ingiustamente trascurata dai teatri italiani. Quindi attesa da parte del pubblico, in parte mal ripagata, a causa di una serata non felicissima per questo indubbio talento, che sfodera una classe concertistica di primo piano (magnifico il suo aplomb e la sua confidenza col pubblico), buonissima tecnica e buona tenuta lungo l'arco del concerto, tutto dedicato al grande pianismo russo, un campo dove il Nostro dovrebbe trovarsi come un pesce nell'acqua. Apertura con la Sonate-fantaisie n. 2 op. 19 di Scriabin, la più romantica e seducente delle sue dieci, forse la più amata dal grande pubblico. L'esposizione è netta, rapida e con pochi fronzoli, e immediatamente si intuisce dove vuole arrivare il giovane musicista, una chiave di lettura estremamente musicale e scorrevole la sua, un suono piuttosto leggero e un pedale asciutto. Gli ancora chiarissimi (in questa sonata) gesti sonori scriabiniani, così legati al retaggio romantico, scorrono con imperturbabile tranquillità senza toccare sonorità profonde. Tutto passa, anche piuttosto in fretta, e tutto ha un senso musicale leggero e spensierato. Anche nel “Presto” tutto fila liscio, sia tecnicamente che espressivamente, senza mai un accento originale. Una visione molto sintetica della musica la sua, con una netta propensione ai tempi rapidi e alle sonorità contenute.

I guai cominciano nella monumentale Sonata in sol maggiore op. 37 “Grande Sonate” di Pëtr Il'ič Čajkovskij, scritta nella maturità prendendo a modello la grande Sonata op. 11 di Schumann. La scelta sempre piuttosto audace di tempi così rapidi come fa Shishkin, non giova a dar luce ai grandi slanci melodici e armonici di questo immenso capolavoro del romanticismo russo, così denso di pathos e di meravigliose aperture liriche. Velocità eccessiva e di conseguenza un fraseggio ansiogeno, non sempre chiaro e privo del respiro naturale della musica, in qualche modo influiscono su una lettura molto musicale, ma abbastanza generica e non perfettamente a fuoco. Un pianismo che è certamente di rilievo quello di Shishkin, ma che è ancora in evoluzione. Forse uno stato di nervosismo impedisce alla musica di espandersi col suo giusto rilievo, tutto come schiacciato da una specie di involucro protettivo opaco, in cui tutti i particolari subiscono l'effetto nebbia. Soprattutto il primo tempo, il “Moderato e risoluto”, ne soffre: il ritmo puntato che informa questo movimento, a questa velocità non viene abbastanza sottolineato, e tanti mirabili dettagli della partitura sono letteralmente travolti. La tendenza all'accelerazione si insidia poi nel bellissimo “Andante non troppo, quasi moderato”, che dalle dita nervose di Shishkin vien quasi a sembrare una pagina mendelssohniana. Per non parlare dello “Scherzo” (Allegro giocoso), anch'esso attaccato ad una velocità folle in una specie di nebulosa sonora. Shishkin è esattamente il contrario di alcuni pianisti russi della generazione di mezzo (Ovchinikov, Sokolov, Pletnev) tendenti all'allargamento delle maglie sonore e dei nuclei strutturali con microscopica precisione. Shishkin invece chiude ogni spiraglio e getta folate di suoni a volte indistinti, con un uso piuttosto uniforme del pedale. Nervosismo? Stanchezza? Non adattamento alla difficile acustica del Teatro Manzoni? Può darsi, visto che le interessanti prove discografiche attestano esattamente l'opposto. Al Manzoni la tendenza sembra quasi provocatoria, forse non voluta ma subita da uno stato di nervosismo. Meglio le cose e decisamente, nei sette Études-Tableaux dall'opera 39 di Rachmaninov (i numeri 1, 2, 3, 4, 6, 8, 9) che costituiscono la seconda parte del concerto: Shishkin li snocciola uno dopo l'altro con imperturbabile speditezza, stavolta con colori più felici e indubbia sensibilità, ma ancora con quella tendenza all'estrema sintesi che a volte lascia la bocca asciutta. Due i bis: l'incantevole Canzona-Serenata op. 38 n.6 di Nikolai Medtner, suonata con primaverile candore, poi il Valzer postumo in mi minore di Chopin, attaccato con slancio esemplare, ma ancora con eccessiva concitazione.