Rossini, genio europeo

 di Alberto Ponti

Lo Stabat Mater apre il Festival di Primavera 2018, con una programmazione tutta incentrata sulle opere del maestro che segnò un'epoca

TORINO, 7 giugno 2018 - Dieci minuti abbondanti di applausi (evento raro nei concerti d'oggi) da parte di un vasto pubblico letteralmente galvanizzato nella serata inaugurale sono il miglior viatico per la terza edizione del Festival di Primavera dell'Orchestra Sinfonica Nazionale, quest'anno dedicato a Gioachino Rossini (1792-1868) nel 150° anniversario della scomparsa del grande pesarese.

Se la storia della musica italiana, da Palestrina in poi, abbonda di geniali compositori che seppero intuire e precorrere nuove strade, con enorme influenza sul successivo corso dell'evoluzione stilistica, forse nessuno è paragonabile a Rossini, precipitato come fulmine a ciel sereno sull'Europa di inizio Ottocento. Fu subito chiara ai contemporanei la statura dell'operista capace di far saltare il banco, di infervorare quant'altri mai la folla delle capitali, con Parigi e Vienna in testa, suscitando memorabili risentimenti da Beethoven (ma, come notò Massimo Mila, il nostro sapeva scrivere per la voce assai meglio di lui) a Berlioz (il quale, non potendo attaccarlo sul piano artistico, lo faceva da un proprio abbastanza fumoso punto di vista morale: 'La musica di Rossini è la musica di un uomo disonesto!'). La semplice verità si può intuire dalla scherzosa battuta dello stesso protagonista, il quale, parlando in tarda età di Mozart, lo definì, con riverenza affettuosa mista ad immancabile humour, 'delizia della mia gioventù, tormento della mia maturità, ed ora consolazione della mia vecchiaia'. Personalità tra le maggiori del secolo, privo di timori reverenziali ma lontano da ogni alterigia, omaggiato in vita dalla biografia di Stendhal, Rossini appare ancora oggi come un prisma sfaccettato e cangiante dal quale, al pari del figlio più illustre di Salisburgo, si irradia in ogni direzione una luce sempre purissima.

Non poca meraviglia suscitò anche al suo apparire lo Stabat Mater (1833-41), con il quale l'autore, dopo quasi tre lustri di assenza dalle scene, si cimentava con un lavoro sacro di grande respiro. Tra spiriti melodrammatici infusi tra le terzine della severa sequenza liturgica e pagine di alta e sublime contemplazione (prima fra tutte il quartetto per sole voci 'Quando corpus' che rapì Richard Wagner) prendeva posto nel repertorio, per non uscirne più, un capolavoro indiscusso del genere.

L'esecuzione di James Conlon, confermato per la prossima stagione 2018/19 direttore principale dei complessi della Rai, si caratterizza per una pulsante tensione agogica, mai dissociata dal colore severo di tanti passaggi della partitura: l'introduzione e l'accompagnamento del 'Cujus animam', affrontato con sincera emozione dal tenore uruguaiano Edgardo Rocha, eccellente per precisione di intonazione e calore dello smalto vocale, fremono di composta partecipazione tanto nei legati della linea melodica che negli staccati spesso in sforzando degli archi. All'ossimoro di una monumentalità accennata, quasi intima e mai scoperchiata con gratuita violenza, è improntata la lettura dell' 'Inflammatus' con ottoni e timpani a gara nel dipingere una visione apocalittica all'apparenza di facile presa. Nell'attento dosaggio timbrico Conlon sembra qui memore della lezione di maestri come Abbado e Sinopoli, in cui un fortissimo per essere veramente tale non corrisponde mai al massimo volume degli strumenti ma dovrebbe poter contenere ancora un ulteriore supplemento di suono, in sommo grado nella musica religiosa: Dio non ha bisogno di urlare.

Una prova di elevato valore, esemplare per ricchezza di sfumature e accenti in ogni sezione, è fornita dal Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia guidato da Ciro Visco. Nella trasferta torinese, la compenetrazione con l'Orchestra Sinfonica Nazionale è totale, dalle dolenti minime puntate del primo numero al vorticoso intreccio polifonico dell' 'Amen in sempiterna'.

Tra i rimanenti solisti il soprano Carmen Giannattasio e il mezzosoprano Marianna Pizzolato, impeccabili nella condotta belcantistica del difficile duetto 'Quis est homo', conquistano per nobiltà di sentimento e hanno pure altrove momenti di gloria: dal superbo sol d'esordio della prima nel già citato 'Inflammatus', scolpito in scioltezza fino ai più acuti si bemolle e do, alla cavatina 'Fac ut portem' per la seconda, che pare scaturire, nello slancio iniziale delle sillabe, dallo stesso impasto del quartetto di corni, per salire e ridiscendere tra le profondità del colloquio interiore dove, nell'evocazione delle sofferenze sulla croce, ogni nota è ammantata di una poetica, dolorosa nitidezza.

Kristinn Sigmundsson è un autorevole basso, già apprezzato di recente in veste di Daland nel wagneriano Der fliegende Holländer sempre sotto la bacchetta di Conlon, e conferma nei momenti a lui riservati (l'aria 'Pro peccatis' e il recitativo 'Eja Mater') la potenza di tono e l'innata generosità di fraseggio, tanto nel cantabile che nel declamato.

I pochi minuti del 'Quando corpus', nel tacere dell'orchestra, rinnovano, per la perfezione del Coro dell'Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il miracolo di una delle pagine più struggenti di ogni tempo. Nemmeno Liszt, sovente in agguato nel dare veste pianistica alle creazioni altrui, osò profanarla con una trascrizione.

foto Maria Vernetti