L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Tu quoque

 di Antonino Trotta

Il MITO SettembreMusica vola, con qualche turbolenza e caduta di stile, in Argentina per una serata interamente dedicata al Tango.

Torino, 8 Settembre 2018 – All’interno dello sterminato panorama di danze folkloristiche, inesauribile fonte d’ispirazione per compositori d’ogni epoca e d’ogni sorta, il tango è universalmente riconosciuto come la più sensuale dell’alchimie instaurabili tra due corpi in movimento. Del resto «la sincope, sì, sì, fa molto effetto: Mozart, Haydn, Beethoven, Bach ne trassero un gran partito» e ben presto il tango si slega dalla fisicità del ballo per trasformarsi in una forma autonoma di scrittura musicale. Nell’introduzione dell’appuntamento del MITO SettembreMusica dedicato alla più celebre danza argentina, il filosofo Stefano Catucci racconta proprio l’erranza di questa struttura a cui compositori come Stravinskij e Piazzolla – alfiere del tango nel mondo – hanno dedicato pagine di splendido sinfonismo, tramandando e a volte tradendone la matrice popolare.

Un tradimento rimane pur sempre un tradimento, ma dall’infedeltà di Igor Stravinskij sgorgano pagine di immensa suggestione sonora. Giuseppe Grazioli, alla guida dell’Orchestra Sinfonica di Milano “Giuseppe Verdi”, sa imprimere al singolare Tango – nella versione per piccola orchestra – delle sfumature coloristiche quasi gershwiniane. Gli intrecci dei fiati sono flessuosi e lo stuzzicante due quarti si insidia tra la platea con movenze sinuose senza però obbedire alle leggi della musica di consumo.

Musica che purtroppo si fa prepotentemente spazio nella “suite tanghera” di Carlos Gardel trascritte per orchestra da Diego Collatti. Durante l’interminabile antologia di sei canzoni – Melodía de arrabal, El día que me quieras, Volver, Mi Buenos Aires querido, Lejana tierra mía e Por una cabeza – si respira l’asfissiante atmosfera di un polveroso piano-bar. La destinazione hollywoodiana dei brani giustifica il look di Fabio Armiliato ma il proditorio microfono non ammette difesa: anche se i pezzi si susseguono senza interruzione e l’orchestrazione spesso è indelicata, la tessitura vocale non è impegnativa. Ne consegue una stucchevole pacchianeria, sgraziata nell’equilibrio voce-orchestra, noiosa e piatta dall’inizio alla fine. Il Giuda Iscariota di ogni cantante non maschera i difetti d’emissione – la voce tende ad andare indietro in alto – e perdipiù enfatizza gli accenti kitsch di Armiliato, macchiettistico nell’interpretazione. Tanti applausi e un bis, ancora Por una cabeza.

Nella seconda parte del concerto, dopo l’incoativo El firulete di Mariano Mores per soli fiati, scende in campo il bandoneón di Davide Vendramin per Las quatro estaciones porteñas di Astor Piazzolla, fulgido esempio di come il tango abbia tradito la dimensione locale per confluire in una tradizione musicale di respiro internazionale. La commistione con laVerdi è intrigante, specialmente nei passi a due con il primo violino, costante presenza nei quadri del compositore argentino. Grazioli enfatizza le invenzioni ritmiche e tonali delle quattro stagioni in un indefesso gioco di cambi di tempo, con agogiche e dinamiche in costante e continua migrazione. Sebbene si ispirino alle stagioni vivaldiane, nel lavoro di Piazzolla la fisarmonica non è strumento accentratore, bensì un interlocutore per l’orchestra, più che mai protagonista. Nonostante la delicatezza del bandoneón, Vendramin, nell’agio del suo territorio d’elezione, ricama nel lussuoso manto orchestrale un canto dall’accento ovunque seducente, ammiccante nelle interessanti dissonanze, cuore dell’intera architettura armonica. Non mancano certamente i virtuosismi, attenti però a non oscurare una musicalità così ben argomentata. Il grande entusiasmo in conclusione del concerto fa guadagnare al pubblico torinese ancora un fuoriprogramma, Sentido unico di Piazzolla. Alla fine, non tutti i tradimenti vengono per nuocere.


 

 

 
 
 

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