Un vangelo dei nostri giorni

 di Stefano Ceccarelli

All’Accademia Nazionale di Santa Cecilia John Adams dirige la sua recentissima opera-oratorio The Gospel According to the Other Mary: il cast eccellente, l’esecuzione smagliante del coro e dell’orchestra, ma soprattutto la presenza del compositore sul podio rendono la serata straordinaria.

ROMA, 3 novembre 2018 – L’Accademia Nazionale di Santa Cecilia è il luogo ideale per la prima esecuzione italiana della recentissima opera-oratorio The Gospel According to the Other Mary dell’americano John Adams, uno dei più importanti compositori contemporanei. L’opera, di proporzioni mastodontiche, è una riuscita sintesi di classicità e modernità; e lo è fin dal libretto, un amalgama di passi biblici e di poesie di autori moderni, come Primo Levi, Dorothy Day, Rosario Castellanos e altri, che descrivono un ‘vangelo’, quello di Maria di Betania, sorella del più celebre Lazzaro. Adams, quindi, cavalca anche l’onda vagamente spiritualistica, molto in voga in America, della ricerca della verità della fede in testi non canonici, come il fascino dei cosiddetti vangeli apocrifi. In un certo senso, quest’opera-oratorio, dunque, è un enorme apocrifo di un personaggio assolutamente secondario dei Vangeli: una Maria, però, moderna, che tenta il suicidio, che assomiglia a tanti poveri del mondo di oggi, agli emarginati. I testi biblici alternati con quelli di poeti dei nostri tempi – come lo stesso Adams ha detto introducendo la sua opera – servono a far comprendere l’universalità e, quindi, l’attualità del testo antico: Maria di Betania, in tal senso, diviene simbolo dell’oppressione femminile, così come Gesù quello di un rinnovatore, un essere straordinario in grado di cambiare il mondo e di migliorarlo. La morte di Gesù, gettando nello sconforto la Maddalena, che pare quasi smettere di credere in un cambiamento reale, si risolve poi nella sua inattesa resurrezione, che lascia un’aura di mistica speranza.

Adams, per questa composizione, sceglie un linguaggio che oscilla, opportunamente, fra l’antico e il moderno. Su tutto si stende l’ombra del Bach degli oratori sacri: l’uso dei controtenori, peraltro, come tanta musica novecentesca (si pensi a Britten), crea quell’atmosfera di antico e sovrannaturale che giova alla voce narrante di questa vicenda. La modernità del linguaggio di Adams, naturalmente, risiede nell’uso delle cellule musicali di ripetizione ritmica ostinata, tanto cara al minimalismo, ma anche nel linguaggio lirico dei cantanti: un canto che è una melopea lunga, che si eleva sporadicamente ad aria (o a qualcosa di similare), ma rimane nel limbo di una melodiosità quasi indistinta, sfuggente, il che è un modo per aumentare il senso del mistico. L’espediente di ‘sdoppiare’ in tre la parte del controtenore produce effetti ancora più stranianti (oltre a richiamare, significativamente, la divina trinità). La direzione di Adams è partecipe, emotiva, profonda: è, del resto, la sua stessa creatura. Vi sono momenti dell’ampia partitura più ispirati di altri: mi riferisco ai passaggi atmosferici, come l’inumazione del corpo del Cristo, accompagnato da effetti strumentali che ricordano addirittura il gracidio delle rane, o ancora quelli che ne accompagnano la morte e la resurrezione, ma anche i tumulti, aumentati dal volumetrico ingresso del coro. Coro che, al solito, merita lodi a profusione: si pensi solo al corale femminile sulla poesia di Castellanos Apuntes para una declaración de fe. I cantanti solisti sono eccellenti. Coordinati e ben centrati sono i tre controtenori, in ordine: Daniel Bubeck, Brian Cummings, Nathan Medley. Riescono, infatti, a essere incisivi nella narrazione, a colorare i differenti momenti della loro parte, a trovare sfumature e effetti (non solo tecnici) capaci di far immergere lo spettatore in un canto misticheggiante, tipico di tanta musica del ‘900. Per loro, Adams riserva uno stile decisamente colorato di antico, con piccole fughe qua e là, che prevede un’emissione fissa, talvolta volutamente sforzata: un antico, comunque, che si colora di moderno, se si pensa già solo all’utilizzo britteniano della corda del controtenore. Nelle altre parti soliste, invece, Adams si ispira profondamente anche alla tradizione dell’opera/musical statunitense, di cui West Side Story è certamente l’esempio più celebre. Kelley O’Connor canta una centrata Mary, solida, tecnicamente ottima e vocalmente potente, ma capace anche di venire incontro a una parte non semplice sul piano dell’interpretazione: in tal senso, vorrei citare l’ottima resa dell’aria dove narra il suo suicidio, su testo di Castellanos, e anche quella dove descrive la violenza subita da parte del padre. La parte di Martha è cantata da Elisabeth DeShong, contralto di grande forza d’emissione, capace però anche di generare colore: da ricordare la sua esecuzione dell’aria che descrive la miseria della povertà su testo di Dorothy Day. Lazarus è cantato da Jay Hunter Morris: deve ancora riscaldarsi nell’aria della sua resurrezione, ma fa poi sempre meglio, in particolare nel testo pasquale di Primo Levi (debitamente tradotto) che chiude il I atto.

Un’eccellente serata di musica: un’esecuzione resa indimenticabile soprattutto dalla presenza sul podio dell’autore stesso, quel John Adams che sa affascinare tanto con la musica che con la sua accattivante retorica.