L’Ape musicale

rivista di musica, arti, cultura

 

Il peso della corona

 di Antonino Trotta

Pubblico in delirio per Mariella Devia a Bergamo: nella cornice del Donizetti Opera, il soprano ligure propone le sue regine della trilogia Tudor.

Bergamo, 28 Novembre 2018 – Governare un paese, oggi, può sembrare alla portata di tutti ma regnare su un impero, vasto e duraturo, richiede ben altre doti. Carisma e dedizione, risolutezza nelle scelte, integrità d’animo diviso tra la ragione di stato e la ragione del cuore, competenza, tanta competenza, dimostrata in battaglia e non millantata dall’alto del proprio soglio. Così Mariella Devia ha saputo erigere il suo regno del belcanto, conquistando, ruolo dopo ruolo, quel serto che Rossini, Donizetti e Bellini le hanno posto sul capo. Un peso, quello della corona, sostenuto, senza cedimento o fatica alcuna, ormai da nove lustri, grazie a una tecnica straordinaria e una rara intelligenza musicale che le hanno permesso di risolvere con esiti eccezionali anche i personaggi meno congeniali alle proprie corde (i ruoli Colbran di Semiramide o Desdemona, ad esempio). Regina vergine, dunque, vergine in quanto immacolata, come la carriera e la voce che, dopo l’addio alle scene con la Norma veneziana (a quarantacinque anni dal debutto nel nome del genio bergamasco), continua a splendere nella cornice del Donizetti Opera Festival. Con le regine d’Inghilterra (e di Scozia) Mariella Devia non condivide solo i fasti del trono, quanto mai espressi da un virtuosismo oleografico, ma i dissidi della donna, vera protagonista delle parentesi romantiche e introspettive che sublimano tutto il teatro donizettiano.

Nella scena finale di Anna Bolena, primo capitolo della celebre “trilogia Tudor” (anzi tetralogia perché a torto si esclude nell’accezione comune – e solo per impopolarità – Il castello di Kenilworth, la cui cavatina di Leicester, tra l’altro, è chiaramente citata nella sinfonia della Bolena), riaffiorano tutte le reminiscenze della Lucia, punto fondamentale nel percorso della Devia, febbrile negli accenti dei lapidari frammenti che Felice Romani predestina come preambolo della pazzia. Un delirio, tuttavia, che avvampa solo in quel recitativo e si spegne sulle note del corno inglese, introduzione all’estasi lunare e trasognante di «Al dolce guidami». Anna si concede un esilio dalla terribile realtà e la Devia la insegue in quell’idillio nostalgico dalla purezza quasi belliniana: il canto si eleva flessuoso sul delicato manto orchestrale, l’intonazione è ineccepibile, il legato d’alta scuola.

Ben altra tempra anima invece l’ardimentosa Maria Stuarda, ispiratissima nelle soavi pagine di «Deh! Tu di un’umile preghiera… Di un cor che more», modello esemplare per tenuta dei fiati e perizia di un fraseggio che valorizza ogni trillo e acciaccatura. Immersa nell’atmosfera sulfurea creata dal coro, il nitore di una voce libera e magistralmente proiettata sembra farsi metafora della luce divina che illumina e rassicura la regina di Scozia prima del patibolo, infondendo in lei la forza del perdono. Si contrappone alla cinerea preghiera l’estenuante potenza drammatica della cabaletta conclusiva «Ah! Se un giorno da queste ritorte», veicolata con puntature ancillari più alla interprete che alla vocalista.

Ma è nell’Elisabetta I del Roberto Devereux che Mariella Devia scrive il paragrafo più emozionante dell’intera serata. L’incontro con il personaggio è totale: il soprano ligure è aristocratico nel portamento, controllatissimo nell’emissione, furente e composto, come solo una regina può essere. Dismessa la corazza, la sua Elisabetta rivela una commovente fragilità che nell’ingloriosa rassegnazione del tragico finale, «Quel sangue versato», esplode in un vaneggiamento spettrale e irrequieto. Le irte discese nel registro grave, affrontate nel massimo rispetto dello stile e del gusto, traducono ora una fierezza violenta che tradisce un senso di pentimento e acquistano un’intensità estremamente coinvolgente, come se nelle diverse altezze del pentagramma si nascondessero i vari volti della regina. La chiusura sul re sopracuto, penetrante e liberatorio, manda in delirio il pubblico.

Alla guida dell’Orchestra Filarmonica del Festival Pianistico di Brescia e Bergamo Giuseppe Sabbatini affronta le tra sinfonie con una buona visione d’insieme e offre una concertazione generosa nelle sfumature. Ovunque si riscontra una vivace analisi del tessuto ritmico, scandito con tempi trascinanti. Senza eccedere con sonorità invasive, Sabbatini controlla bene l’equilibrio tra le sezioni e con le voci, anzi, a lui va riconosciuta una grande galanteria nell’attenzione riservata alla protagonista. Validi il comprimariato – Federica Vitali (Anna Kennedy/Sara), Francisco Brito (Leicester/Cecil), Lorenzo Barbieri (Cecil/Nottingham), Alessandro Ravasio (Talbot) – e il Coro Donizetti Opera istruito dal maestro Fabio Tartari.

Inutili le incessabili richieste di bis alla fine del concerto: «Ha fatto tre opere!» sussurra Sabbatini, invitando il pubblico a desistere, dopo un simile sforzo, da tanta frenesia e a concedere all’artista il meritato riposo. Del resto, per la Devia, antidiva tra le dive, la corona è solo una responsabilità.

foto Gianfranco Rota


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