Felix Aenigma, parte seconda

di Roberta Pedrotti

La seconda parte del piccolo ciclo dedicato dalla Filarmonica bolognese a Felix Mendelssohn-Bartholdy scioglie le perplessità della prima serata con un concerto godibile e brillante, che trova l'orchestra in buona forma.

BOLOGNA, 04/05/2014 - La seconda parte del piccolo ciclo Mendelssohn della Filamonica del Comunale di Bologna chiude la stagione 2013-2014 e chiude anche un discorso lasciato in sospeso, portandolo finalmente a compimento. Eravamo infatti usciti un po' perplessi dopo il primo concerto diretto da Paul Goodwin [leggi la recensione], che pareva non aver trovato una perfetta sintonia con l'orchestra, non essere riuscito a mantenere sempre la tensione e a realizzare pienamente i giochi dinamici e coloristici che l'olimpico romantico richiederebbe. Pochi giorni dopo appare subito evidente come il rapporto fra podio e organico (ampiamente rinnovato, in un'alternanza che evidentemente si è rivelata fruttuosa) si sia approfondito e abbia colto il giusto equilibrio. Il gesto di Goodwin, d'altra parte, ha una sua simpatica esuberanza, un suo stralunato e contagioso humor, non è né vigoroso e trascinante, né trascendente e carismatico, né meticoloso riferimento per ogni attacco. Il suo pare il gesto entusiasta di chi è abituato a far musica spesso con compagni di viaggio abituali, e in uno stretto e consolidato rapporto non ha bisogno d'indicare in concerto tutto quello che è scritto e si è condiviso in prova, né di concentrare su di sé l'attenzione e trascinare tutta l'esecuzione, vista quasi come una gioiosa esperienza collettiva. Non è un demiurgo insomma, o un catalizzatore, ma un musicista innamorato della dimensione collettiva del suo lavoro. Bisogna però che scocchi una scintilla e nel secondo concerto questo è effettivamente avvenuto, orchestra e maestro si sono conosciuti, forse gli strumentisti subentrati hanno trovato maggior affinità con il suo spirito, certamente le letture sono parse più lucide e compiute, le esecuzioni più brillanti e precise. Non illuminanti, non abbacinanti e indimenticabili, ma coerenti e godibili. Nell'ouverture Le Ebridi: la grotta di Fingal, op. 26 troviamo quello che ci era mancato nella precedente occasione con la Suite da Sogno di una notte di mezz'estate: l'atmosfera, l'incanto, l'unitarietà e la suggestione, la leggerezza. Segue la Sinfonia n. 4 in La maggiore, op. 90, Italiana, in cui Goodwin ha buon gioco a sfoderare le sue carte migliori. Lo slancio leggiadro e vitalistico, la luminosità mediterranea idealizzata dalla sensibilità di un giovane intellettuale dall'animo artistico, imbevuto di romantica passione classicista, trovano una lettura accattivante, una ben calibrata espressione, con dinamiche giuste, assieme curato, ben sfumato ed efficace disegno complessivo. È ovvio che questa scrittura si adatti al temperamento del concertatore e dopo il primo movimento un gruppetto, entusiasta, abbozza un applauso e viene subito zittito. È vero, non s'usa, ma la cesura è piuttosto netta, la bacchetta era posata e il silenzio in sala assoluto: che male c'è ad applaudire, in fondo? Nell'Ottocento era consuetudine perfino bissare i singoli movimenti; personalmente trovo molto più fuori luogo gli applausi acritici che partono meccanicamente all'opera non appena il sipario accenna minimamente a chiudersi, quand'anche si stia ancora cantando e suonando, forse per la fretta di compiere un dovere, quello del battimano, e di correre poi al guardaroba. All'intervallo segue la quinta e ultima Sinfonia di Mendelssohn, la Riforma, in Re maggiore, op. 107, composta per celebrare i tre secoli della Confessione augustana e della fede protestante, cui aveva aderito nel 1819 insieme con la famiglia. Di salde origini ebraiche, come Meyerbeer, e come l'autore del Robert le diable proveniente da una delle più colte famiglie berlinesi, fulcro dei salotti intellettuali cittadini, Mendelssohn sceglie di inserire nella sua sinfonia, quasi a emblema del luteranesimo, il corale Ein feste Burg ist unser Gott, il medesimo citato in Les huguenots, affidato a Marcel. Un'interessante coincidenza, che immerge in modo ancor più significativo nello spirito del tempo una partitura di profonda ispirazione spirituale, opera netta e severa di un innamorato riscopritore di Bach, di un compositore romantico non tanto per l'aspirazione a titanici tormenti e contrasti, quanto per la vibrante tensione spirituale, per la mimesi curiosa, per la nostalgica, intima fascinazione verso l'ideale, verso una dimensione magica e incantata della natura e della poesia. Un brano che compie efficacemente la parabola attorno al sorriso enigmatico di questo romantico sereno e intelligente, morto troppo giovane e forse troppo sottovalutato. L'orchestra suona assai bene, anche se il tono meditativo, tedesco più in senso weimariano che sturmer, sembra risuonare meno consonante alle corde di Goodwin, che lascia un segno meno evidente rispetto all'Italiana e perde un po' di smalto e incisività nel finale, mostrandosi qui direttore semplicemente corretto. Serata, comunque, più che soddisfacente e meritatamente applaudita, con festeggiato bis del secondo movimento della Quinta. Appuntamento, ora, alla prossima stagione della Filarmonica.